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— Ho fatto togliere il diaframma — replicò Alice.

— Volevi restare incinta?

— Ce l’ho fatta maledettamente in fretta. E Papà non può fare assolutamente niente. Eccetto, ovviamente, tagliarmi completamente i viveri, ma non penso che lo farà: che ne dici? — Rise di nuovo. — Perfino a me?

— Ma Alice… perché? Non sarà solo per fare arrabbiare Papà!

— No — rispose Alice. — Anche se tu lo avresti pensato, vero? Perché voglio qualcosa da amare. Qualcosa di mio. Qualcosa che non abbia nulla a che fare con questa casa.

Leisha pensò a se stessa e ad Alice che correvano attraverso la serra, anni addietro, lei e Alice che sfrecciavano dentro e fuori i raggi di sole. — Non è stato tanto male crescere in questa casa.

— Leisha, sei una stupida. Non so come una persona tanto intelligente possa essere così stupida. Vattene dalla mia camera! Vattene fuori!

— Ma Alice… un bambino…

— Fuori! — strillò Alice. — Vattene ad Harvard! Vattene ad avere successo! Basta che ne te vai!

Leisha balzò giù dal letto. — Con piacere! Sei irrazionale, Alice. Non pensi al futuro, non fai progetti, un bambino… — Ma non era mai stata capace di rimanere infuriata. La rabbia le scivolò via, lasciandole vuota la mente. Guardò Alice, che, improvvisamente, le tese le braccia. Leisha vi si rifugiò.

— Sei tu la bambina — disse Alice con aria stupefatta. — Lo sei davvero. Sei così… non saprei dire. Sei una bambina.

Leisha non disse nulla. Le braccia di Alice davano una sensazione di caldo, di unione, di due bambine che correvano avanti e indietro dalla luce del sole. — Ti aiuterò io, Alice, se non lo farà Papà.

Alice la allontanò repentinamente — Non ho bisogno del tuo aiuto.

Alice si alzò in piedi, Leisha si sfregò le braccia vuote con le dita che grattavano i gomiti opposti. Alice sferrò un calcio al baule aperto e vuoto nel quale avrebbe dovuto riporre la roba da portare al Northwestern, e poi il volto le si aprì all’improvviso in un sorriso, un sorriso che costrinse Leisha a distogliere lo sguardo. La ragazza si inquartò nelle spalle aspettandosi altre offese. Ma tutto quello che Alice le disse con voce dolcissima fu: — Divertiti ad Harvard.

5

Le piacque moltissimo.

Alla prima vista della Massachusetts Hall, più antica degli Stati Uniti di un mezzo secolo, Leisha provò qualcosa che le era del tutto mancato a Chicago: età. Radici. Tradizione. Toccò i mattoni in cotto della Biblioteca Widener, le teche in vetro del Museo Peabody come se fossero il graal. Non era mai stata particolarmente sensibile al mito o al dramma: il tormento di Giulietta le appariva artificiale, quello di Willy Loman semplicemente inutile. Solamente la lotta di Re Artù per creare un miglior ordine sociale l’aveva interessata. In quel momento, tuttavia, camminando sotto gli immensi alberi autunnali, colse improvvisamente il barlume di una forza che era in grado di abbracciare intere generazioni, tesori lasciati per fornire istruzione e conquiste che i benefattori non avrebbero mai visto, uno sforzo individuale che percorreva e modellava i secoli a venire. Si fermò e guardò il cielo attraverso le foglie, gli edifici resi ancor più solidi dal loro scopo. In quei momenti pensava a Camden, che aveva piegato la volontà di un intero istituto di ricerca genetica per creare lei secondo l’immagine che lui aveva voluto.

Nel giro di un mese aveva dimenticato tutte quelle megameditazioni.

Il carico di lavoro era incredibile, perfino per lei. La Sauley School aveva incoraggiato l’approfondimento individuale a un ritmo personalizzato; Harvard sapeva che cosa voleva da lei, e ai propri ritmi. Nei vent’anni precedenti, sotto la guida accademica di un uomo che in gioventù aveva assistito con dispiacere alla dominazione economica giapponese, Harvard era divenuta controversa di un ritorno all’apprendimento severissimo di fatti, teorie, applicazioni, risoluzione dei problemi ed efficienza intellettuale. La scuola accettava solamente un candidato su duecento provenienti da tutto il mondo. La figlia del Primo Ministro inglese non aveva superato il primo anno ed era stata rispedita a casa.

Leisha aveva una camera singola in un dormitorio nuovo: la scelta dell’alloggio per studenti era stata fatta perché lei aveva passato tantissimi anni isolata a Chicago ed era bramosa di conoscere altre persone, la scelta della camera singola era dovuta al fatto che non avrebbe disturbato nessuno pur lavorando tutta la notte. Durante il secondo giorno di permanenza, un ragazzo che proveniva dal corridoio le entrò salterellando nella camera e si appollaiò sul margine della sua scrivania.

— E così tu sei Leisha Camden.

— Sì.

— Sedici anni.

— Quasi diciassette.

— Pronta a sbaragliarci tutti, a quanto ho capito, senza nemmeno provarci.

Il sorriso di Leisha svanì. Il ragazzo la fissò da sotto sopracciglia abbassate e aggrottate. Stava sorridendo e aveva uno sguardo tagliente. Da Richard, Tony e gli altri Leisha aveva imparato a riconoscere la rabbia che si presentava sotto forma di disprezzo.

— Sì — disse freddamente Leisha — lo farò.

— Ne sei certa? Con i tuoi bei capelli da ragazzina e il tuo cervello mutante da ragazzina?

— Oh, lasciala in pace, Hannaway — intervenne un’altra voce. Un ragazzo alto, biondo, così magro che le sue costole sembravano increspature sulla sabbia, stava lì in jeans e a piedi nudi, asciugandosi i capelli bagnati. — Non ti stanchi mai di andare in giro a fare l’idiota?

— E tu? — ribatté Hannaway. Si alzò dalla scrivania e si diresse verso la porta. Il biondo si spostò dalla sua traiettoria. Leisha vi si piazzò.

— Il motivo per cui otterrò risultati migliori di te — disse in modo equilibrato — è che posseggo determinati vantaggi che tu non hai. Inclusa la possibilità di non dormire. Quando poi ti avrò superato nelle prestazioni, sarò felice di aiutarti a studiare per gli esami in modo che li possa superare anche tu.

Il biondo che si stava asciugando i capelli si mise a ridere. Hannaway invece rimase immobile e, nei suoi occhi, comparve un’espressione che portò Leisha a indietreggiare. Lui la superò e uscì a precipizio.

— Ben fatto, Camden — disse il biondo. — Se lo meritava.

— Ma io parlavo sul serio — ribatté Leisha. — Lo aiuterò a studiare.

Il biondo abbassò l’asciugamano e la fissò. — È vero, eh? Parlavi proprio sul serio.

— Certo! Perché tutti continuano a metterlo in dubbio?

— Bene — disse il ragazzo, — Io non lo metto in dubbio. Potrai aiutare me se mi troverò nei pasticci. — Improvvisamente sorrise. — Ma non mi succederà.

— Perché no?

— Perché io sono bravo in tutto esattamente come te, Leisha Camden.

La ragazza lo esaminò. — Tu non sei uno di noi. Non sei un Insonne.

— Non ho bisogno di esserlo. So quello che sono in grado di fare. Fare, essere, creare, commerciare.

Lei disse entusiasta: — Sei uno yagaista!

— Ovviamente. — Lui le porse la mano. — Stewart Sutter. Che ne dici di un fishburger nello Yard?

— Fantastico — rispose Leisha. Uscirono insieme, parlando in modo eccitato, Quando le persone la fissavano lei cercava di non notarlo. Si trovava lì. Ad Harvard. Con tanto spazio davanti a sé, tempo, per imparare e per stare con gente come Stewart Sutter che l’accettava e la sfidava.

Durante tutte le ore in cui lui era sveglio.

Fu completamente assorbita dagli studi. Roger Camden l’andò a trovare una volta, passeggiò nel campus insieme con lei, ascoltandola, sorridendo. L’uomo si sentiva più a proprio agio di quanto Leisha non si fosse aspettata: conosceva il padre di Stewart Sutter e il nonno di Kate Addams. Parlarono di Harvard, affari, Harvard, l’Istituto Economico Yagai, Harvard. — Come sta Alice? — chiese una volta Leisha, ma Camden le rispose che non lo sapeva; aveva traslocato e non lo voleva vedere. Lui le aveva fissato una rendita tramite il proprio avvocato. Mentre diceva quelle cose il suo volto rimase sereno.