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Lui le bloccò il polso e la fissò in volto, — Non fraintendermi, Leisha. Non sto parlando di lavoro, Noi siamo eccessivamente individualisti per quanto riguarda il resto della nostra vita. Troppo emotivamente razionali. Troppo soli. L’isolamento uccide più del libero flusso delle idee. Uccide la gioia.

Non le lasciò andare il polso. Leisha lo fissò negli occhi, in profondità che non aveva mai scorto prima di allora. Aveva la sensazione di guardare nel pozzo di una miniera, che dava le vertigini e terrorizzava, sapendo che sul fondo poteva trovarsi oro oppure oscurità. O tutt’e due.

Richard le disse a voce bassa. — Stewart?

— È finita da parecchio. Una storia da studenti. — Stentò a riconoscere la voce come propria.

— Kevin?

— No, mai… siamo solamente amici.

— Non ne ero sicuro. Qualcun altro?

— No.

Le lasciò il polso. Leisha lo scrutò timidamente. Lui si mise improvvisamente a ridere. — Gioia, Leisha. — Un’eco risuonò nella sua mente ma lei non riuscì a identificarla, e quindi sparì, e anche lei si mise a ridere, una risata ariosa, spumeggiante, zucchero filato rosa in estate.

— Leisha, torna a casa. Ha avuto un altro attacco di cuore.

La voce di Susan Melling al telefono era stanca. Leisha chiese: — Quanto grave?

— I dottori non ne sono certi. Quanto meno sostengono di non esserlo. Ti vuole vedere. Puoi lasciare gli studi?

Era maggio, l’ultima volata verso gli esami finali. Le bozze del "Law Review" erano in ritardo. Richard aveva intrapreso un nuovo tipo di affari, consulente marino per i pescatori di Boston afflitti da improvvisi e inesplicabili spostamenti delle correnti oceaniche, e stava lavorando venti ore al giorno. — Verrò — rispose Leisha.

Chicago era più fredda di Boston. Gli alberi erano solo parzialmente gemmati. Sul lago Michigan, a riempire le immense finestre orientali della casa di suo padre, le creste bianche delle ondine sollevavano spruzzi gelidi. Leisha si accorse che Susan era tornata ad abitare nella casa: sul comò di Camden c’erano le sue spazzole, le sue riviste erano appoggiate sulla credenza nell’atrio.

— Leisha — disse Camden. Appariva vecchio. La pelle grigiastra, le guance incavate, lo sguardo frenetico e sconcertato di uomini che avevano considerato la potenza come aria, indivisibile dalle loro vite. Nell’angolo della stanza, su una poltroncina dell’Ottocento, stava seduta una donna robusta dai capelli scuri.

— Alice.

— Salve, Leisha.

— Alice. Ti ho cercata… — La cosa sbagliata da dire. Leisha aveva cercato ma senza un grande impegno, scoraggiata dalla consapevolezza che Alice non voleva essere trovata. — Come stai?

— Sto bene — rispose Alice. Sembrava distaccata, gentile, molto diversa dall’Alice infuriata di sei anni prima, nelle brulle colline della Pennsylvania. Camden si spostò dolorosamente sul letto. Guardò Leisha con occhi che, lei notò, non erano affatto offuscati nel loro limpido azzurro.

— Ho chiesto ad Alice di venire. E anche a Susan. Susan è arrivata qualche tempo fa. Sto morendo, Leisha,

Nessuno lo contraddisse. Leisha, conoscendo il rispetto dell’uomo per i fatti, rimase in silenzio. L’amore le bruciava in petto.

— John Jaworski ha il mio testamento. Non lo potete impugnare in alcun punto. Volevo dirvi personalmente, tuttavia, che cosa c’è scritto. Durante gli ultimi pochi anni ho venduto, liquidato. La maggior parte dei miei possedimenti è disponibile subito. Ho lasciato ad Alice un decimo, un decimo a Susan, un decimo a Elizabeth e il resto a te, Leisha, perché sei l’unica che possiede l’abilità individuale per utilizzare il denaro nel suo pieno potenziale per ottenere realizzazioni.

Leisha spostò violentemente lo sguardo su Alice che la fissò di rimando con la sua strana e distaccata calma. — Elizabeth? Mia… madre? È viva?

— Sì — rispose Camden.

— Mi avevi detto che era morta! Anni e anni fa!

— Sì. Ho pensato che per te fosse meglio così, Lei non apprezzava quello che tu eri, era gelosa di quello che potevi diventare. E non aveva nulla da darti. Non avrebbe fatto altro che causarti problemi emotivi.

"Mendicanti in Spagna…"

— È stato un errore, Papà. Hai sbagliato. Lei è mia madre… — Non riuscì a terminare la frase.

Camden non esitò. — Non penso proprio di essermi sbagliato. Ma adesso sei adulta. Puoi andarla a trovare, se lo desideri.

Continuò a fissarla con i suoi brillanti occhi incavati, mentre attorno a Leisha l’aria palpitava e si lacerava. Suo padre le aveva mentito. Susan l’osservò attentamente, con un debole sorriso sulle labbra. Era forse felice di vedere Camden cadere nella stima di sua figlia? Era forse sempre stata così gelosa della loro relazione, di Leisha…

Stava pensando come Tony.

La riflessione la rese più stabile. Continuò tuttavia a fissare Camden che a sua volta continuò a guardarla in modo implacabile, inamovibile, un uomo sicuro di avere ragione, perfino sul letto di morte.

La mano di Alice le si appoggiò sul gomito, la voce di Alice fu così bassa che solamente Leisha fu in grado di sentirla. — Adesso ha finito di parlare, Leisha. Fra qualche tempo ti sentirai di nuovo bene.

Alice aveva lasciato il figlio in California insieme a quello che era suo marito da due anni, Beck Watrous, un imprenditore edile che aveva conosciuto mentre serviva ai tavoli in una località turistica nelle Isole Artificiali. Beck aveva adottato Jordan, il figlio di Alice.

— Prima che conoscessi Beck ho passato un periodo davvero difficile — disse Alice con la sua voce distaccata. — Sai che quando ero incinta di Jordan sognavo realmente che nascesse Insonne? Come te. Lo sognavo tutte le notti, e tutte le mattine mi svegliavo e mi veniva la nausea per un bambino che sarebbe diventato una stupida nullità come me. Sono rimasta con Ed per altri due anni. Nei Monti Appalachi, ricordi? Sei venuta a trovarmi lì una volta. Quando mi picchiava ero felice. Avrei voluto che Papà fosse lì a guardare. Almeno Ed mi toccava.

Leisha produsse uno strano rumore in gola.

— Alla fine me ne sono andata perché avevo paura per Jordan. Mi sono trasferita in California e non ho fatto altro che mangiare per un anno. Sono arrivata fino a ottantasei chili. — Secondo un calcolo di Leisha, Alice era alta poco più di un metro e sessanta. — Poi sono tornata a casa per venire a trovare la mamma.

— Non me lo hai mai detto — disse Leisha. — Sapevi che era viva e non me lo hai detto.

— Passa metà del suo tempo ricoverata in qualche centro per disintossicarsi dall’alcol — ribatté Alice con brutale semplicità. — Non ti avrebbe ricevuto anche se tu avessi voluto. Però ha voluto incontrare me, mi si è gettata addosso tutta sdolcinata perché ero la sua "vera" figlia e poi mi ha vomitato sul vestito. Ho indietreggiato, ho guardato il vestito e mi sono resa conto che era da vomitare, tanto era orrendo. Deliberatamente orrendo. Lei ha cominciato a strillare su come Papà le avesse rovinato la vita, su come avesse rovinato la mia, e tutto per te. E sai che cosa ho fatto io?

— Cosa? — chiese Leisha. Aveva la voce tremante.

— Sono volata a casa, ho bruciato tutti i miei vestiti, ho trovato un lavoro, mi sono iscritta al college, ho perso ventitré chili e ho mandato Jordan alla terapia del gioco.

Le sorelle rimasero sedute in silenzio. Al di là della finestra il lago era scuro, non illuminato né da luna né da stelle. Fu Leisha che si scosse improvvisamente e Alice che le dette una pacca sulla spalla.

— Dimmi… — Leisha non riusciva a pensare che cosa volesse che le venisse raccontato, ma desiderava sentire la voce di Alice nell’oscurità, la voce di Alice per come era diventata, gentile e distaccata, non più danneggiata dalla dannosa esistenza di Leisha. La sua stessa esistenza un danno. — Parlami di Jordan. Adesso ha cinque anni, vero? Com’è?