Jordan riprese a esaminare la strada. Mayleen gli chiese: — Aspetti qualcuno?
Lentamente Jordan si voltò. — Hawke non ti ha telefonato?
— Telefonato cosa? Non mi ha detto mica niente.
— Gesù Cristo - esclamò Jordan. Il terminale nella guardiola trillò, e Mayleen tirò dentro la testa. Jordan la osservò attraverso la vetrata in plastivetro. Mentre lei ascoltava, il viso le si indurì come sapevano fare solamente quei volti del Mississippi. Ghiaccio istantaneo nel calore ribollente. Lui non aveva mai visto una cosa simile in California.
Evidentemente, Hawke le stava dicendo non soltanto di permettere l’ingresso a un visitatore, ma anche chi fosse il visitatore in questione.
— Sì, signore — disse lei in tono enfatico al terminale, e Jordan si contrasse. Nessuno in fabbrica chiamava Hawke "signore" a meno che non fosse infuriato, e nessuno si infuriava mai con Hawke. Tendevano a rimuovere. Sempre.
Mayleen uscì dalla guardiola. — Non è che è opera tua, Jordan?
— Sì.
— Perché? — La donna sputò la parola e Jordan, finalmente, sentì indurirsi anche il proprio volto. Finalmente Hawke diceva sempre che gli occorreva troppo tempo per arrabbiarsi.
— Sono affari tuoi, Mayleen?
— Tutto quello che succede in questo impianto qui sono affari miei — rispose Mayleen, il che era soltanto la verità. Hawke lo aveva reso la verità per tutti e ottocento gli impiegati. — Non vogliamo gente del suo genere qui.
— Apparentemente, Hawke sì.
— Ti ho chiesto perché.
— Perché non lo chiedi a lui perché?
— Lo sto chiedendo a te. Perché, maledizione?
Lungo la strada avanzava una nuvola di polvere. Un’automobile. Jordan avvertì un’improvvisa fitta di terrore: qualcuno le aveva detto forse di non presentarsi con una Samsung-Chrysler? Ma si poteva contare sul fatto che lei sapesse già una cosa del genere. Sapeva sempre tutto.
Mayleen latrò: — Ti ho fatto una domanda, Jordan! Che intenzioni ha il signor Hawke lasciando entrare uno di loro nel nostro impianto?
— Hai preteso una risposta, non hai fatto una domanda. — Ormai la rabbia gli dava una sensazione gradevole, spazzando via il suo nervosismo. — Ma risponderò comunque, Mayleen. Solo perché sei tu. Leisha Camden è qui perché ha chiesto di venire, e Hawke le ha dato il permesso.
— Questo l’ho capito da sola! Quello che non riesco a capire è perché!
L’automobile si fermò al cancello. Era pesantemente corazzata e stipata di guardie del corpo. Il conducente scese per aprire il cancello. L’auto non era una Samsung-Chrysler.
— Perché? — ripeté Mayleen con un tale odio che perfino Jordan rimase sconcertato. Si voltò. La sottile bocca di lei era contorta in un ringhio, ma nei suoi occhi regnava una paura che Jordan riconobbe, Hawke gli aveva insegnato a riconoscerla, la paura non per le persone in carne e ossa, ma per le scelte degradanti che quelle persone avevano causato indirettamente: due dollari per mezzo pacchetto di sigarette o due dollari per un paio di calzettoni caldi? Latte extra per i bambini oltre quello passato dall’assistenza sociale o un taglio di capelli? La paura non era tanto di morire di fame, non in un paese con una prosperità basata sull’energia a basso costo, quanto di essere tagliati fuori da quella prosperità. Essere di seconda classe. Non abbastanza in gamba per il fondamentale distintivo di dignità adulta: il lavoro. Un parassita. La rabbia colò fuori da Jordan: tristemente, la sentì scemare. La rabbia era molto più comoda.
Nel modo più gentile possibile, disse a Mayleen: — Leisha Camden si trova qui perché è la sorella di mia madre. Mia zia.
Lui si chiese quanto sarebbe occorso a Hawke, quella volta, per redimerlo.
— E per ogni scooter occorrono sedici operazioni sulla catena di montaggio? — chiese Leisha.
— Sì — rispose Jordan. Erano insieme con le guardie del corpo di Leisha, tutti con elmetto e occhialoni, a osservare la Sezione 8-E. Gli operai si affaccendavano a gruppi di tre su una ventina di scooter e, presi dal loro zelo, ignorarono completamente i visitatori. Lo zelo era più evidente rispetto ai risultati ma, ovviamente, questo Leisha lo sapeva già.
Sei mesi prima, alla festa del diciottesimo compleanno della sorella minore di Jordan, in California, Leisha aveva interrogato Jordan così accuratamente sulla fabbrica che lui era stato certo, sicuro come l’oro, che alla fine lei gli avrebbe chiesto di visitarla. Quello che non si era aspettato era che Hawke glielo permettesse.
Lei disse: — Pensavo che il signor Hawke potesse unirsi a noi. Dopo tutto, sono venuta per incontrare lui.
— Ha detto di portarti nel suo ufficio dopo il giro.
Sotto i pesanti occhialoni di sicurezza le labbra di Leisha sorrisero. — Per mostrarmi casa mia?
— Immagino di sì — disse con espressione grave Jordan. Non sopportava quando Hawke, sempre imprevedibile, si abbassava a recitare la parte di quello che è sempre in vantaggio sugli altri. Con grande sorpresa di Jordan, Leisha gli appoggiò una mano sul braccio. — Non prendertela per me, Jordan. Non è che non ne abbia diritto.
Che poteva dire Jordan al proposito? L’intera questione era essenzialmente basata sui diritti. Chi avesse quale, come e perché.
Non si sa come, Jordan non si sentiva esattamente la persona più adatta a commentare. Non era nemmeno certo di chi, nella sua stessa famiglia, avesse il diritto a cosa, o perché.
Sua madre e sua zia avevano una rapporto così strano. Forse "tirato" era un termine più adatto. E, nello stesso tempo, non lo era. Leisha faceva visita alla famiglia Watrous in California soltanto in occasioni di cerimonie: Alice non andava mai a trovare Leisha a Chicago. Tuttavia Alice, che amava il giardinaggio, spediva per via aerea un mazzo di fiori freschi del proprio giardino all’appartamento di Leisha ogni singolo giorno, a un costo che Jordan riteneva folle. I fiori erano del tutto comuni, resistenti boccioli di campo: flox, girasoli, gigli selvatici e garofani indiani che Leisha avrebbe potuto acquistare lungo le strade di Chicago per qualche dollaro. — La zia Leisha non preferisce le piante esotiche da appartamento? — aveva chiesto una volta Jordan. — Sì — gli aveva risposto sorridendo sua madre.
Leisha aveva sempre portato a Jordan e a sua sorella Moira dei regali meravigliosi: kit elettronici per ragazzi, telescopi, due quote di azioni da seguire sulle reti informatiche. Alice era sempre sembrata entusiasta dei regali quanto lo erano stati i ragazzi. Tuttavia, quando Leisha mostrava a Jordan e Moira come utilizzare ognuno di essi, come regolare azimut e altitudine del telescopio, come scrivere ideogrammi giapponesi su carta di riso, Alice aveva sempre lasciato la stanza. Dopo i primi pochi anni, anche Jordan aveva desiderato a volte che Leisha se ne andasse per lasciare lui e Moira a leggere le istruzioni per proprio conto. Leisha spiegava troppo in fretta, troppo rigidamente e troppo a lungo, e si arrabbiava perché Jordan e Moira non ricordavano le cose al primo colpo. Non risultava nemmeno d’aiuto il fatto che la zia Leisha sembrasse arrabbiarsi con se stessa, non con loro. Faceva sentire Jordan uno stupido. — Leisha ha il suo modo di fare — era tutto quello che diceva Alice. — E noi abbiamo il nostro.