— Oh — commentò Alice, come se Leisha avesse risposto a tutt’altra domanda, e Jordan si accorse che gli occhi di sua madre erano più astuti di quanto non li avesse mai visti, intensi e scuri proprio come quelli di Calvin Hawke.
Nel primo mattino, il deserto del Nuovo Messico era incandescente di luce perlacea. Ombre taglienti, azzurre, rosa e di colori di cui Leisha non aveva mai immaginato potessero essere le ombre, avanzavano strisciando come esseri viventi attraverso l’immenso vuoto. Al distante orizzonte, le Montagne Sangre de Cristo si stagliavano chiare e nitide.
— Bello, vero? — chiese Susan Melling.
Leisha rispose: — Non sapevo che la luce potesse sembrare così.
— Non a tutti piace il deserto. Troppo desolato, troppo vuoto, troppo ostile alla vita umana.
— A te piace.
— Sì — disse Susan. — A me piace. Che cosa vuoi, Leisha? Non si tratta soltanto di una visita di cortesia: la tua aria di crisi è a forza di tempesta. Una tempesta civilizzata. Solenni e incalzanti folate di aria freddissima.
A dispetto di se stessa, Leisha sorrise. Susan, ormai settantottenne, aveva lasciato la ricerca scientifica quando le era peggiorata l’artrite. Si era trasferita in un piccolo villaggio a settanta chilometri da Santa Fe, un trasferimento inspiegabile per Leisha. Niente ospedali, niente colleghi, pochissima gente con cui parlare. Susan viveva in una casa dalle spesse pareti di mattoni di creta impastata con paglia, con un arredamento ridotto e un tetto, da cui si godeva di una vista aperta, che lei utilizzava come terrazza. Sui profondi davanzali imbiancati delle finestre e i pochi tavolini, aveva esposto pezzi di roccia lucidati dal vento fino a brillare, oppure vasi di fiori selvatici dagli steli rigidi, o perfino ossa di animali sbiancate dal sole fino all’incandescente bianchezza della neve sulle montagne lontane. Camminando un po’ a disagio nella casa per la prima volta, Leisha aveva avvertito un sollievo palpabile, come un leggero colpo nel petto, quando aveva visto il terminale e le riviste mediche nello studio di Susan. Tutto quello che Susan aveva voluto dire del suo pensionamento era stato: — Ho lavorato con la mente per lungo tempo, adesso voglio brancolare a tentoni per il resto. — Affermazione che Leisha aveva compreso a livello intellettuale, aveva letto tenacemente tutte le teorie mistiche standard, ma non in altro modo. Il "resto" di cosa, esattamente? Era stata riluttante a interrogare ulteriormente Susan, per paura che si trattasse di una specie del Gruppo dei gemelli di Alice: pseudo-psicologia agghindata da fatto scientifico. Leisha non pensava di poter sopportare di vedere la sottile mente di Susan sedotta dal fallace conforto del sentimentalismo artificiale. Non Susan.
A quel punto Susan invitò: — Entriamo, Leisha. Il deserto per te è sprecato. Non sei ancora abbastanza anziana per apprezzarlo. Vado a preparare del tè.
Il tè era ottimo. Seduta accanto a Susan sul divano, Leisha domandò: — Ti sei tenuta aggiornata nel tuo campo, Susan? Per esempio con la ricerca sull’alterazione genetica pubblicata l’anno scorso da Gaspard-Thiereux?
— Sì — rispose Susan. Un luccichio di divertimento apparve e scomparve nei suoi occhi, ora un po’ incavati ma ancora brillanti. Aveva smesso di tingersi i capelli: le scendevano in ciocche bianche soltanto un po’ meno folte di quelle che Leisha ricordava dall’infanzia. La pelle di Susan, tuttavia, aveva la venata trasparenza del guscio d’uovo. — Non ho rinunciato al mondo come una specie di monaco flagellante, Leisha. Consulto le riviste regolarmente, anche se devo dire che è passato molto tempo da quando vi è comparso qualcosa che valesse realmente la pena studiare, se si eccettua il lavoro di Gaspard-Thiereux.
— Adesso c’è. — Leisha le parlò di Walcott, della Samplice, della ricerca e del furto. Non menzionò Jennifer né il Rifugio. Susan sorseggiò il tè, ascoltando in silenzio. Quando Leisha ebbe terminato, Susan non disse nulla.
— Susan?
— Fammi vedere gli appunti della ricerca. — Appoggiò la tazza di tè, che sbatté duramente sul tavolinetto di vetro.
Susan esaminò a lungo le carte. Scomparve quindi nel suo studio per svolgere qualche equazione. — Usa solamente un computer isolato — la avvertì Leisha — e cancella tutto il programma, dopo. Completamente. — Un momento dopo, Susan annuì lentamente.
Leisha vagò per il salotto, fissando le pietre che mostravano fori crivellati da venti bizzarri, pietre tanto lisce da poter essere rimaste appoggiate sui fondali oceanici per un milione di anni, pietre caratterizzate da inaspettate protuberanze che assomigliavano a escrescenze maligne. Prese in mano il cranio di un animale e passò le dita sull’osso liscio.
Quando Susan tornò, era più calma, tutte le sue facoltà critiche a RAM completa. — Be’, sembra proprio una linea di ricerca autentica, fino al punto in cui arriva. È quello che volevi sapere, no?
— E arriva abbastanza avanti?
— Dipende da qual è il pezzo mancante. Quello che ha trovato è nuovo, ma nuovo più nel senso di non essere mai stato esplorato prima in quanto semibizzarra scorciatoia, piuttosto che nel senso di essere un’inevitabile ma complessa estensione di una conoscenza già esistente: comprendi la differenza?
— Capisco. Ma quello che c’è qui potrebbe essere il sostegno logico di un pezzo finale effettivamente in grado di trasformare i Dormienti in Insonni?
— È possibile — affermò Susan. — Ha effettuato qualche deviazione poco ortodossa dal lavoro di Gaspard-Thiereux, ma da ciò che posso affermare da quello che ho in mano… sì. Sì, è possibile.
Susan sprofondò sul divano e si coprì il volto con le mani.
Leisha chiese: — Quanti degli effetti collaterali potrebbero esserci… è possibile che…
— Mi stai chiedendo se i Dormienti che diventassero Insonni non in vitro potrebbero avere gli organi che non invecchiano come il resto di voi? Dio, non lo so. La biochimica al proposito è ancora molto nebulosa. — Susan abbassò le mani e sorrise, senza mostrare alcun divertimento. — Voi Insonni non ci fornite abbastanza esemplari su cui effettuare ricerche. Non morite abbastanza spesso.
— Mi dispiace — replicò seccamente Leisha. — Abbiamo le agende talmente piene.
— Leisha — fece Susan con voce leggermente incerta — che succederà adesso?
— Oltre alla lotta interna alla Samplice? Presenteremo richiesta di brevetto a nome di Walcott. A dire il vero, ho già iniziato la pratica, prima che possa farlo chiunque altro. Poi, dopo che Walcott ed Herlinger… e qui si presenta un altro problema.
— Quale altro problema?
— Walcott-e-Herlinger. Io sospetto che Herlinger abbia portato avanti la maggior parte del lavoro e che Walcott non abbia intenzione di condividere con lui il merito, se solo potrà evitare di farlo. Walcott è una specie di mansueto belligerante. Vaga con fare assente per il mondo, incurante di come funzioni realmente, finché qualcuno non gli pesta i piedi: a quel punto si mette a strillare e gli si avventa contro con le unghie e con i denti.
— Conosco il tipo — disse Susan. — Niente a che vedere con tuo padre.
Leisha la guardò: Susan parlava raramente di Roger Camden. La donna prese in mano lo stesso cranio di animale su cui Leisha aveva passato le dita. — Che cosa sai di Georgia O’Keeffe?
— Un’artista, vero? Diciannovesimo secolo?
— Ventesimo. Dipinse questi crani. E questo deserto. Molte volte. — Improvvisamente Susan lasciò caldere a terra il cranio: quello si frantumò sul pavimento di pietra. — Leisha, fai questo bambino di cui tu e Kevin parlate sempre. Non esistono garanzie che solo perché nessuna femmina Insonne è ancora entrata in menopausa non vi entrerai mai. Perfino le tube di Falloppio che in sé sembrano non invecchiare possono non produrre nuovi gameti. I tuoi ovuli hanno quarantatré anni.