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Leisha avanzò in punta di piedi lungo il corridoio. Entrò dapprima nella camera di Alice. Accanto alla culla, in una presa a parete, riluceva una piccola lampadina. Nella camera di Leisha non c’erano culle. Leisha fissò la sorella attraverso le sbarre. Alice giaceva su un fianco con gli occhi chiusi. Le palpebre le tremolavano velocemente, come tendine mosse dal vento. Il collo e il mento di Alice sembravano abbandonati.

Leisha chiuse la porta con estrema cautela e andò nella camera dei genitori.

Loro non dormivano in una culla ma in un letto immenso, con tanto spazio fra loro due da poter accogliere altre persone. Le palpebre della Mamma non fremevano: giaceva sulla schiena producendo uno strano rumore col naso, hrrr-hrrr. Su di lei lo strano odore era davvero forte. Leisha si allontanò sempre in punta di piedi e si avvicinò a Papà. Aveva lo stesso aspetto di Alice, solo che aveva collo e mento che apparivano ancora più abbandonati, mostrava pieghe di pelle che ricadevano come la tenda che era caduta nel giardino. Leisha si spaventò vedendolo in quel modo. A quel punto, gli occhi di Papà si aprirono così improvvisamente che Leisha strillò.

Papà rotolò giù dal letto, prendendola in braccio, e lanciò un’occhiata veloce alla Mamma. Lei tuttavia non si mosse. Papà indossava solamente le mutande. Portò Leisha nel corridoio, dove stava giungendo di corsa Mamselle dicendo: — Oh, signore, mi dispiace, ha detto solo che doveva andare in bagno…

— Non si preoccupi — rispose Papà. — La porterò con me.

— No! — gridò Leisha, perché Papà aveva addosso solo le mutande, e il suo collo era sembrato così strano e la stanza puzzava a causa della Mamma. Tuttavia Papà la portò nella serra, la appoggiò su una panca, si avvolse attorno un pezzo di telo in plastica verde che serviva per coprire le piante e si sedette accanto a lei.

— Adesso dimmi: che cos’è successo, Leisha? Che cosa stavi facendo?

Leisha non rispose.

— Stavi guardando la gente che dorme, vero? — disse Papà e, poiché la sua voce era molto dolce, Leisha bofonchiò. — Sì. — Si sentì immediatamente meglio: era bello non mentire.

— Stavi guardando la gente che dorme perché tu non dormi ed eri curiosa, vero? Come George il Curioso del tuo libro?

— Sì — rispose Leisha. — Avevo capito che tu stavi a fare soldi nel tuo studio tutta la notte!

Papà sorrise. — Non tutta la notte. In parte. Poi però dormo, anche se non molto — Si mise Leisha sulle ginocchia. — Non ho bisogno di molto sonno, e quindi riesco a fare molte più cose di notte rispetto alla maggior parte della gente. Persone diverse hanno bisogno di una diversa quantità di sonno. E poche, pochissime, sono come te. Tu non ne hai bisogno affatto.

— Perché no?

— Perché tu sei speciale. Migliore delle altre persone. Prima che tu nascessi ho chiesto ad alcuni dottori che ti facessero così.

— Perché?

— Perché tu potessi fare tutto quello che vuoi e manifestare la tua individualità.

Leisha si mosse fra le sue braccia per poterlo fissare: quelle parole non significavano nulla per lei. Papà allungò una mano e toccò un fiore singolo che stava crescendo su un alto albero in vaso. Il fiore mostrava spessi petali bianchi come la panna che lui versava nel caffè e, nel centro, era leggermente rosato.

— Vedi, Leisha… questo albero ha prodotto questo fiore. Perché può. Solamente questo albero può fare questo genere di fiore stupendo. La pianta che sta appesa laggiù non può e nemmeno quelle altre. Soltanto questo albero: di conseguenza, la cosa più importante al mondo per questo albero è far sbocciare questo fiore. Il fiore rappresenta l’individualità dell’albero resa manifesta: cioè solo il fiore e niente altro. Niente altro ha importanza.

— Non capisco, Papà.

— Capirai. Un giorno.

— Ma io voglio capire adesso - disse Leisha, e Papà si mise a ridere deliziato e la strinse forte. L’abbraccio faceva stare bene, ma Leisha continuava a voler capire.

— Quando fai i soldi, è quella la tua indiv… quella cosa?

— Sì — disse Papà allegramente.

— Allora nessun altro può fare soldi? Come solo quell’albero può fare quel fiore?

— Nessun altro può farlo proprio nel modo in cui lo faccio io.

— Che cosa fai con i soldi?

— Compero delle cose per te. Questa casa, i tuoi vestiti, pago Mamselle per insegnarti, l’automobile in cui viaggiare.

— Che cosa fa l’albero con il fiore?

— Si gloria di esso — rispose Papà, il che non aveva alcun senso. — È la superiorità quello che conta, Leisha. L’eccellenza sostenuta dallo sforzo individuale. E questo è tutto ciò che conta.

— Ho freddo, Papà.

— Allora sarà meglio che ti riporti da Mamselle.

Leisha non si mosse. Toccò il fiore con un dito. — Voglio dormire, Papà.

— No, tesoro. Il sonno è solamente una perdita di tempo, vita sprecata. È una piccola morte.

— Alice dorme.

— Alice non è come te.

— Alice non è speciale?

— No. Tu lo sei.

— Perché non hai fatto speciale anche Alice?

— Alice si è fatta da sola. Non ho avuto l’opportunità di renderla speciale.

Quell’intera storia era troppo difficile. Leisha smise di accarezzare il fiore e scivolò giù dalle ginocchia del padre. Lui le sorrise. — La mia piccola interrogatrice. Quando crescerai troverai anche tu la tua eccellenza e si tratterà di un nuovo ordine, un modo di essere speciale che il mondo non ha mai conosciuto. Potresti essere perfino come Kenzo Yagai. Lui ha creato il generatore Yagai che fornisce energia al mondo.

— Papà, sei buffo tutto avvolto in quel telo di plastica per fiori. — Leisha si mise a ridere. Anche Papà rise. Lei, però, aggiunse: — Quando crescerò farò sì che la mia eccezionaiità trovi un modo per rendere speciale anche Alice — e il Papà smise di ridere.

La riportò da Mamselle, che le insegnò a scrivere il suo nome, cosa talmente eccitante che le fece dimenticare la sconcertante discussione con il padre. Erano sei lettere, tutte diverse e insieme formavano il suo nome. Leisha lo scrisse in continuazione, ridendo, e anche Mamselle rise. Successivamente, nella mattinata, Leisha ripensò alla chiacchierata col padre. Ci pensò spesso, rigirando le parole così poco familiari nella mente come piccoli sassi duri, ma la parte a cui pensò di più non era una parola. Era l’espressione corrucciata sul volto di Papà quando lei gli aveva detto che avrebbe usato la propria eccezionalità per rendere speciale anche Alice.

Ogni settimana la dottoressa Melling andava a trovare Leisha e Alice, a volte da sola, a volte con altre persone. Sia a Leisha sia ad Alice la dottoressa Melling piaceva molto perché rideva un sacco e aveva occhi brillanti e affettuosi. Spesso c’era anche Papà. La dottoressa Melling giocava con loro, prima con Alice e Leisha separatamente e poi insieme, Scattava loro fotografie e le pesava. Le faceva stendere su una tavola e appiccicava loro piccole cose metalliche sulle tempie, il che sembrava un po’ spaventoso ma non lo era, in realtà, perché c’erano sempre tanti macchinari da guardare e producevano tutti rumori interessanti mentre loro restavano stese lì. La dottoressa Melling era brava quanto Papà a rispondere alle domande. Una volta Leìsha aveva chiesto: — La dottoressa Melling è una persona speciale? Come Kenzo Yagai? — Papà aveva riso, lanciando un’occhiata alla dottoressa Melling, e aveva risposto: — Oh, decisamente sì.

Quando Leisha compì cinque anni, lei e Alice iniziarono a frequentare la scuola. L’autista di Papà le portava ogni giorno a Chicago. Erano in classi differenti e questo seccava moltissimo a Leisha. I bambini nella classe di Leisha erano tutti più grandi tuttavia, dal primo giorno, lei adorò la scuola, col suo affascinante equipaggiamento scientifico, i cassetti elettronici pieni di misteri matematici e gli altri bambini con cui cercare le nazioni sulle carte geografiche. Dopo metà anno era stata spostata in un’altra classe, in cui i bambini erano ancora più grandi, ma anche quelli si erano dimostrati carini con lei. Leisha cominciò a imparare il giapponese. Le piaceva dipingere i magnifici caratteri sulla spessa carta bianca. — La Sauley School è stata un’ottima scelta — disse Papà.