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— P-p-perché? — chiese Miri in modo tagliente, odiando il fatto che le occorresse tanto tempo per far uscire quella parola, anche se si sentiva infiammata dalla necessità di farlo.

Lui non rispose.

Will Sandaleros disse: — Ora.

Jennifer si sporse in avanti, fissando la bolla olografica tridimensionale. A mille e quattrocento chilometri di distanza nello spazio, quella originale si gonfiò, pressurizzata con aria standard, e liberò i topi dal loro stato quasi ipotermico. Piccoli cerotti a gocce sui collari riportarono i loro sistemi biologici al pieno funzionamento in un tempo minimo. Nel giro di pochi minuti i biorilevatori sui collari indicarono che gli animali si erano sparpagliati dentro la bolla suddivisa secondo una complessa topografia matematica interna analoga a Washington DC.

— Pronti — disse il dottor Toliveri. — Attenzione. Sei, cinque, quattro, tre, due, uno, via!

I virus modificati geneticamente vennero liberati. Le correnti d’aria, corrispondenti a venti di sette chilometri orari provenienti da sud-est, percorsero la bolla controllata termicamente. Jennifer spostò l’attenzione agli schermi che riportavano i valori dei biorilevatori sulla parete opposta. Nel giro di tre minuti non mostrarono più alcuna attività.

— Sì — disse Will. Non stava sorridendo ma le prese la mano. — Sì.

Jennifer annuì. A Toliveri, Blure e ai tre tecnici di laboratorio disse: — Un lavoro superbo. — Si rivolse quindi a Will. La sua voce bellissima, composta, era molto bassa. — Siamo pronti per il prossimo stadio.

— Sì — ripeté nuovamente lui.

— Inizia i negoziati di acquisto della stazione orbitale Kagura. Non passare attraverso Kevin Baker. Tienilo all’oscuro.

Will Sandaleros non sembrò dispiacersi del fatto che gli venisse ripetuto ciò che, in effetti, era stato deciso, da loro, anni addietro. Sembrava comprendere la necessità per sua moglie di impartire ordini. Fissò quindi ancora una volta i biorilevatori con occhi luccicanti.

Miri aprì la porta del laboratorio di Tony. Lui si era trasferito in una stanza di lavoro propria nell’Edificio Scientifico Due sei mesi prima, quando non c’era stato più spazio in un solo laboratorio per entrambi i loro progetti. Ogni volta che Miri guardava la metà della scrivania che era appartenuta al fratello si sentiva triste, anche se pensava che una parte della tristezza derivasse dal suo lavoro che stava andando realmente male. Nel corso di due anni, aveva ricreato ogni modificazione genetica che le era venuta in mente, senza avvicinarsi minimamente a una soluzione che riuscisse a correggere il balbettio e le contrazioni prodotti da tutti i processi elettrochimici potenziati all’eccesso dei Super. Il lavoro aveva cominciato a sembrarle sterile, a ricordarle la componente mancante nelle stringhe stesse, qualunque essa fosse. Elusivo, sterile, improduttivo. Quel giorno era stato un altro fallimento. Era di umore pessimo, un umore terribile, mutevole, carico di stringhe caotiche e sterile, Voleva il conforto e l’incoraggiamento di Tony. Voleva Tony.

La porta del suo laboratorio era bloccata, ma l’impronta della retina di Miri era inserita nel file autorizzato, e l’insegna luminosa AMBIENTE STERILE era spenta. Appoggiò l’occhio destro allo scanner e aprì la porta.

Tony era steso sul pavimento, tutto una contrazione. e un sobbalzo, sopra Christina Demetrios. Oltre il suo corpo che spingeva, Miri vide gli occhi di Christina spalancarsi, quindi oscurarsi. — Oh! — esclamò Christy. Tony non disse nulla: forse non aveva sentito Miri e nemmeno Christina. Le sue natiche nude si contraevano vigorosamente, e il suo corpo intero stava fremendo in un orgasmo. Miri indietreggiò e uscì dal laboratorio, chiuse la porta e corse nel proprio.

Rimase seduta con le mani serrate insieme, tremanti, sulla scrivania, con il capo chino. Tony non le aveva detto… be’, perché avrebbe dovuto dirglielo? Erano affari suoi, non di lei: lei era solamente sua sorella. Non la sua amante, sua sorella. Nella testa, le stringhe si formavano e riformavano; per la prima volta, molte storie antiche e oscure, che aveva ricordato solamente perché ricordava tutto, acquistarono un senso. Era e Io. Otello e Desdemona. Conosceva l’intera fisiologia del sesso: secrezioni influenzate dagli ormoni, congestione vascolare, innescatori di feromoni. Sapeva tutto. Non sapeva nulla.

Gelosia. Una delle emozioni esistenti più rovinose per una comunità. Una emozione da mendicante.

Miri si alzò e si mise a camminare distrattamente. No. Non avrebbe ceduto all’abbrutimento della gelosia. Era migliore di così. Tony si meritava di più da sua sorella. Idealismo (stoicismo, epicureismo, "siamo formati e modellati da ciò che amiamo", le natiche di Tony che pompavano dentro Christina…). Avrebbe risolto quel problema a modo suo (oscurità, pienezza, il dolore pulsante, la pressione gravitazionale per incendiare i gas in reazioni termonucleari, variabili di Cefeo…).

Miri si lavò il volto e le mani. Indossò un paio di pantaloncini bianchi puliti e si legò i capelli neri con un nastro rosso. Le sue labbra, a dispetto del costante contrarsi, erano serrate. Non doveva pensare a chi rivolgersi: lo sapeva già e sapeva di saperlo, e sapeva le implicazioni del saperlo già (oscurità, pienezza, giacere sulla pancia sul pavimento del laboratorio o sotto le piante di soia modificata geneticamente che si congiungevano nascondendola sotto a un arco, la mani in mezzo alle gambe).

Lui si chiamava David Aronson. Aveva tre anni più di lei, era un Normale, ma abbastanza intelligente, un fermo credente nel giuramento al Rifugio e nella posizione di sua nonna. Aveva capelli scuri e ricci, scuri quasi quanto quelli di Miri, ma occhi di un grigio molto chiaro, con ciglia nere. Aveva gambe lunghe e le spalle, a diciotto anni, larghe e possenti come quelle di un adulto. La sua bocca era carnosa, labbra grandi e mobili di una fermezza quasi scolpita. Miri aveva passato gli ultimi sei mesi a osservare la bocca di David.

Lo trovò dove pensava: al porto navette della stazione orbitale, chino sugli schermi CAD di un macchinario. Di lì a due mesi sarebbe partito per un programma di dottorato di ricerca in ingegneria a Stanford, il suo primo viaggio sulla Terra.

— Salve, Miri. — Aveva una voce profonda, un po’ roca. A Miri piaceva quella caratteristica. Non sapeva, però, perché.

— D-d-david, v-v-voglio c-c-chiederti una c-c-cosa.

Lui guardò leggermente oltre Miri, fissando l’ologramma CAD. — Cosa?

Lei non aveva alcuna difficoltà a essere diretta: per tutta la sua vita, il problema nella comunicazione era venuto dalla difficoltà fisica e dalla esagerata semplicità del linguaggio rispetto all’enorme complessità dei suoi pensieri. Era abituata a semplificare il più possibile le cose per i Normali. Quella, poi, era anche una cosa semplice: sembrava adeguarsi perfettamente, quasi come nessun’altra, alle limitazioni del linguaggio.

— V-v-vuoi f-fare s-s-sesso con m-m-me?

David si raddrizzò. Le guance gli si colorirono. Continuò a guardare oltre di lei. — Mi dispiace, Miri, ma non è possibile.

— P-p-perché n-no?

— Ho già un’amica.

— C-c-hi?