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— L’ha presa Jennifer — disse Carol, e cinque paia di occhi si spostarono su Jennifer Sharifi la quale, da due settimane in visita a casa di Carol, li stava confondendo tutti. Era la figlia nata in America di una stella del cinema di Hollywood e di un principe arabo che avrebbe voluto fondare una dinastia di Insonni. La stella del cinema era una nota tossicodipendente e il principe, che aveva tratto la sua fortuna dal petrolio e l’aveva investita in energia-Y quando Kenzo Yagai stava ancora chiedendo le licenze per i primi brevetti, era morto. Jennifer Sharifi era più ricca di quanto non sarebbe diventata Leisha un giorno e infinitamente più smaliziata nel procurarsi le cose. Il bicchiere conteneva interleukin-1, uno stimolante del sistema immunitario, una delle molte sostanze che, come effetto collaterale, portava rapidamente il cervello a un sonno profondo.

Leisha fissò il bicchiere. Una sensazione calda le percorse la parte inferiore del ventre, non molto diversa da quella che provava quando lei e Richard facevano l’amore, Si accorse che Jennifer la stava guardando e arrossì.

Jennifer la turbava. Non per le ovvie ragioni per cui turbava Tony, Richard e Jack: i lunghi capelli neri, il corpo esile e slanciato in pantaloncini e reggiseno. Jennifer non rideva. Leisha non aveva mai conosciuto un Insonne che non ridesse e nemmeno uno che parlasse così poco, con tanta deliberata indifferenza. Leisha si trovò a rimuginare sulle reticenze di Jennifer Sharifi. Era una sensazione strana da provare nei confronti di un altro Insonne.

Tony disse a Caroclass="underline"  — Dallo a me!

Carol gli consegnò il bicchiere. — Ricorda, ne basta un piccolo sorso.

Tony sollevò il bicchiere portandolo alla bocca, si fermò e fissò gli altri da sopra il bordo con uno sguardo fiammeggiante. Bevve.

Carol riprese il bicchiere. Guardarono tutti Tony

Nel giro di un minuto, giaceva a terra, nel giro di due, i suoi occhi si chiusero nel sonno.

Non era come vedere i genitori, i fratelli, gli amici addormentati. Si trattava di Tony. Distolsero lo sguardo, evitarono a vicenda gli occhi degli altri. Leisha sentì il calore fra le gambe tirare e pizzicare in modo vagamente osceno. Non guardò Jennifer.

Quando arrivò il turno di Leisha, lei bevve lentamente, quindi passò il bicchiere a Richard. Sentì la testa pesante, come se fosse stata imbottita di stracci bagnati. Gli alberi al margine della radura si offuscarono. Anche la lampada portatile si offuscò: non era più brillante e nitida ma schiacciata, rigonfia; se l’avesse toccata avrebbe macchiato. Poi l’oscurità le avvolse il cervello, portandoselo via: portandole via la mente. — Papà! — Cercò di gridare, di afferrarlo, ma poi l’oscurità l’annullò.

In seguito ebbero tutti il mal di testa. Trascinarsi attraverso gli alberi nella tenue luce mattutina fu una tortura, frammista a una strana vergogna. Non si toccarono l’un l’altro. Leisha camminò il più lontano possibile da Richard.

Jennifer fu l’unica a parlare, — E così adesso sappiamo — disse, e la sua voce faceva trasparire una strana soddisfazione.

Occorse un giorno intero prima che le forti pulsazioni lasciassero il fondo del cranio di Leisha o la nausea il suo stomaco. Rimase a sedere da sola nella sua camera aspettando che le passasse la sofferenza e, nonostante il caldo, continuò a rabbrividire.

Non aveva nemmeno sognato nulla.

— Voglio che tu venga con me questa sera — disse Leisha per la decima o la dodicesima volta. — Partiamo tutt’e due per il college fra soli due giorni: è l’ultima occasione. Vorrei davvero che tu conoscessi Richard.

Alice stava sdraiata a pancia in giù sul letto. I suoi capelli, scuri e lucidi, le ricadevano sul volto. Indossava una costosa tuta di seta gialla firmata Ann Patterson, tutta sgualcita attorno alle ginocchia.

— Perché? Che te ne importa se conosco o no Richard?

— Perché sei mia sorella — disse Leisha. Sapeva bene che non doveva dire "la mia gemella". Nulla faceva infuriare più velocemente Alice.

— Non voglio. — Un attimo dopo il volto di Alice cambiò. — Oh, mi dispiace, Leisha, non volevo sembrare così arrogante. Ma… non voglio farlo.

— Non ci saranno tutti. Solamente Richard. E soltanto per un’oretta. Poi potrai tornartene qui e preparare le valigie per il Northwestern.

— Non andrò al Northwestern.

Leisha la fissò sbalordita.

Alice disse: — Sono incinta.

Leisha si sedette sul letto. Alice rotolò sulla schiena, si scostò i capelli dagli occhi e si mise a ridere. Le orecchie di Leisha si chiusero a quel suono. — Guardati — disse Alice. — Si direbbe che sei tu quella incinta. Ma non lo saresti mai, vero, Leisha? Non finché non fosse il momento giusto. Non tu.

— Come? — disse Leisha. — Abbiamo fatto mettere tutte due i diaframmi…

— Ho fatto togliere il diaframma — replicò Alice.

— Volevi restare incinta?

— Ce l’ho fatta maledettamente in fretta. E Papà non può fare assolutamente niente. Eccetto, ovviamente, tagliarmi completamente i viveri, ma non penso che lo farà: che ne dici? — Rise di nuovo. — Perfino a me?

— Ma Alice… perché? Non sarà solo per fare arrabbiare Papà!

— No — rispose Alice. — Anche se tu lo avresti pensato, vero? Perché voglio qualcosa da amare. Qualcosa di mio. Qualcosa che non abbia nulla a che fare con questa casa.

Leisha pensò a se stessa e ad Alice che correvano attraverso la serra, anni addietro, lei e Alice che sfrecciavano dentro e fuori i raggi di sole. — Non è stato tanto male crescere in questa casa.

— Leisha, sei una stupida. Non so come una persona tanto intelligente possa essere così stupida. Vattene dalla mia camera! Vattene fuori!

— Ma Alice… un bambino…

— Fuori! — strillò Alice. — Vattene ad Harvard! Vattene ad avere successo! Basta che ne te vai!

Leisha balzò giù dal letto. — Con piacere! Sei irrazionale, Alice. Non pensi al futuro, non fai progetti, un bambino… — Ma non era mai stata capace di rimanere infuriata. La rabbia le scivolò via, lasciandole vuota la mente. Guardò Alice, che, improvvisamente, le tese le braccia. Leisha vi si rifugiò.

— Sei tu la bambina — disse Alice con aria stupefatta. — Lo sei davvero. Sei così… non saprei dire. Sei una bambina.

Leisha non disse nulla. Le braccia di Alice davano una sensazione di caldo, di unione, di due bambine che correvano avanti e indietro dalla luce del sole. — Ti aiuterò io, Alice, se non lo farà Papà.

Alice la allontanò repentinamente — Non ho bisogno del tuo aiuto.

Alice si alzò in piedi, Leisha si sfregò le braccia vuote con le dita che grattavano i gomiti opposti. Alice sferrò un calcio al baule aperto e vuoto nel quale avrebbe dovuto riporre la roba da portare al Northwestern, e poi il volto le si aprì all’improvviso in un sorriso, un sorriso che costrinse Leisha a distogliere lo sguardo. La ragazza si inquartò nelle spalle aspettandosi altre offese. Ma tutto quello che Alice le disse con voce dolcissima fu: — Divertiti ad Harvard.

5

Le piacque moltissimo.

Alla prima vista della Massachusetts Hall, più antica degli Stati Uniti di un mezzo secolo, Leisha provò qualcosa che le era del tutto mancato a Chicago: età. Radici. Tradizione. Toccò i mattoni in cotto della Biblioteca Widener, le teche in vetro del Museo Peabody come se fossero il graal. Non era mai stata particolarmente sensibile al mito o al dramma: il tormento di Giulietta le appariva artificiale, quello di Willy Loman semplicemente inutile. Solamente la lotta di Re Artù per creare un miglior ordine sociale l’aveva interessata. In quel momento, tuttavia, camminando sotto gli immensi alberi autunnali, colse improvvisamente il barlume di una forza che era in grado di abbracciare intere generazioni, tesori lasciati per fornire istruzione e conquiste che i benefattori non avrebbero mai visto, uno sforzo individuale che percorreva e modellava i secoli a venire. Si fermò e guardò il cielo attraverso le foglie, gli edifici resi ancor più solidi dal loro scopo. In quei momenti pensava a Camden, che aveva piegato la volontà di un intero istituto di ricerca genetica per creare lei secondo l’immagine che lui aveva voluto.