Il secondo scudo, un centinaio di metri oltre quello, bloccava tutta la materia non vivente che non fosse accompagnata da un DNA che "era" immagazzinato nelle banche dati. Nessun vascello robotico privo di equipaggio che trasportasse alcuna cosa — sensori, bombe, spore — avrebbe potuto passare quel campo. Indipendentemente da quanto fosse piccolo. Se non c’era un codice del DNA registrato ad accompagnarlo, non lo superava. Ci lanciammo attraverso il debole scintillio azzurrino dello scudo come attraverso una bolla di sapone.
Il terzo scudo, alle banchine, era controllato manualmente e monitorato a livello visivo. Il DNA registrato doveva essere vivo e parlante. Non so come potessero verificare uno stato narcotizzato. Non venimmo toccati da nulla, quanto meno da nulla che io potessi sentire. Il progetto era di Terry Mwakambe. Il monitoraggio era assegnato a tutti, a turno. La paranoia era di Miri. A differenza di sua nonna, non voleva che i Super si staccassero permanentemente dagli Stati Uniti ma, come sua nonna, aveva nondimeno costruito un rifugio protetto che i rappresentanti ufficiali del governo non potessero toccare. Un santuario. Lo aveva soltanto fatto meglio rispetto a Jennifer Sharifi.
— Permesso di attraccare — disse con espressione seria il ragazzino lentigginoso. Mimò un mezzo saluto militare e sorrise. Per lui si trattava ancora di un’avventura.
— Salve, Jason — disse Christy Demetrios. — Salve, Drew. Venite dentro.
Jason Reynolds. Ecco il nome del ragazzo. Adesso lo ricordavo. Il figlio di Alexandra, la nipote di Kevin. Qualcosa di lui mi colpì la memoria, una nervosa forma vivace, come una fila di perline. Non riuscivo a ricordare.
Jason attraccò. Una trentina di metri di vegetazione modificata geneticamente, fiori, cespugli e alberi, tutto facente parte del progetto. Le piante crescevano fino al margine dell’acqua. Quando il mare si faceva minaccioso, si accendeva uno scudo a energia-Y in grado di proteggere da un uragano perfino la più delicata rosa modificata geneticamente. Al di là del giardino, si stagliavano repentinamente le mura della tenuta, sottili come carta, più resistenti del diamante. Miri mi aveva detto che erano spesse soltanto una dozzina di molecole, costruite da nano-macchinari di seconda generazione a loro volta fatti da nano-macchinari. Nella mente vidi la bianchezza glassata delle mura, cui non poteva aderire alcuno sporco, come un movimento rosso scuro, denso e inarrestabile quanto la lava.
Lì nulla era arrestabile.
— Drew! — Miri mi corse incontro, indossando pantaloncini bianchi e una camiciona, la massa dei suoi capelli scuri legata con un nastro rosso. Aveva messo un rossetto rosso. Sembrava ancora più una sedicenne che non una ventinovenne. Mi abbracciò forte sulla carrozzella e io sentii il veloce battito del suo cuore contro la guancia. Il Super-metabolismo è molto più accelerato rispetto al nostro. La baciai.
Mi mormorò nei capelli: — Questa volta è passato troppo tempo. Quattro mesi!
— È stata una bella tournée, Miri.
— Lo so. Ho visto sedici rappresentazioni in olo-visione e le statistiche dei concerti sembrano buone.
Mi si accovacciò in grembo. Jason e Christy erano discretamente svaniti. Ci trovavamo soli nello sfolgorante giardino appena creato. Accarezzai i capelli di Miri non volendo ascoltare ancora le statistiche riguardanti le rappresentazioni.
Miri disse: — Ti amo.
— Anch’io ti amo.
La baciai nuovamente, questa volta per evitare di guardarla in viso. Sarebbe stato accecante, incandescente per l’amore. Lo era sempre quando mi vedeva. Sempre. Da tredici anni. "Era capace di una ossessività completa" aveva detto Leisha di suo padre. "Logorava le persone."
— Mi manchi così tanto quando sei via, Drew.
— Anche tu mi manchi. — Questo era vero.
— Vorrei che tu potessi restare per più di una settimana.
— Anche io. — Questo non era vero. Ma non esistevano parole.
A quel punto mi guardò a lungo. Qualcosa si mosse dietro ai suoi occhi. Con grande attenzione, per non far male alle mie gambe menomate, scese dalle mie ginocchia, allungò le mani e sorrise. — Vieni a vedere il lavoro al laboratorio.
Capii subito di cosa si trattava: Miri mi stava offrendo il meglio che aveva. Il regalo più prezioso del mondo. La cosa di cui io volevo disperatamente essere parte, anche se non avrei mai potuto capirla, perché non esserne parte significava essere insignificanti. Poco importanti. Mi stava offrendo ciò di cui avevo maggiormente bisogno.
Io non potevo fare di meno.
La feci sedere sulle mie ginocchia, mi costrinsi a muovere le mani sul suo seno. — Dopo. Prima non possiamo starcene un po’ soli…
Il volto di lei aveva la forma curva della gioia, troppo sfolgorante per poter essere di qualsiasi colore.
La camera da letto di Miri, come tutte le altre camere da letto a La Isla, era spartana. Letto, toeletta, terminale, un tappeto verde ovale di un materiale soffice inventato da Sara Cerelli. Sulla toeletta un vaso verde di fiori fragranti modificati geneticamente che non riconobbi. Quelle persone, che potevano ottenere qualsiasi lusso, vi indulgevano raramente. L’unico gioiello che Miri aveva mai portato era l’anello che le avevo dato io, una sottile vera incastonata di rubini. Non avevo mai visto gli altri Insonni portare alcun tipo di gioiello. Tutte le loro stravaganze, mi aveva detto una volta Miri, erano di tipo mentale. Perfino la luce era comune: piatta, senza ombre.
Pensai alla biblioteca di Leisha nella casa del Nuovo Messico.
Miri si sbottonò la camicia. Il suo seno aveva lo stesso aspetto di quando lei era sedicenne: pieno, latteo, coronato da pallide areole scure. Si sfilò i pantaloncini. Aveva i fianchi larghi, la vita tozza. Il pelo pubico era cespuglioso, irto e dello stesso nero dei capelli, sempre legati dal nastro rosso. Allungai la mano e sciolsi il fiocco.
— Oh, Drew, mi sei mancato tanto…
Mi sollevai dalla carrozzella fino al suo letto stretto e poi la tirai sopra di me. Il suo seno si schiacciò sul mio petto, soffice sul duro. In tournée o no, allenavo la parte superiore del corpo in modo fanatico, per compensare le gambe menomate. A Miri piaceva. Le piaceva sentire le mie braccia che la serravano contro di me. Le piaceva che le mie spinte fossero dure, decise, perfino violente. Cercai di darle tutto questo, ma questa volta rimasi molle.
Mi guardò con espressione interrogativa, scostandosi i neri capelli cespugliosi dalla faccia. Non incrociai il suo sguardo. Allungò una mano e cominciò a massaggiarmi dolcemente.
Era successo soltanto poche volte, tutte recentemente. Miri prese a massaggiare con maggior vigore.
— Drew…
— Dammi qualche minuto, amore.
Lei sorrise con aria incerta. Cercai di concentrarmi e poi di non concentrarmi.
— Drew…
— Ssssst… soltanto un minuto.
Le grigie forme del fallimento mi ghermirono la mente.
Chiusi gli occhi, strinsi più forte Miri e pensai a Leisha. Leisha nel crepuscolo del Nuovo Messico, una indefinita forma dorata contro il tramonto. Leisha che cantava per farmi addormentare quando avevo dieci anni. Leisha che correva nel deserto, agile e snella, inciampando nella tana di un topo-canguro e storcendosi una caviglia. L’avevo riportata in braccio fino alla tenuta, col suo corpo leggero e dolce fra le mie braccia di diciottenne. Leisha al funerale di sua sorella, con le lacrime che le facevano riflettere tutta la luce, nuda nel dolore. Leisha nuda come non l’avevo mai vista…
— Ohhhh — cantilenò Miri trionfante.
Rotolai in modo da trovarmi sopra. Miri preferiva così. Spinsi forte, poi più forte. Le piaceva davvero duro. Alla fine la sentii rabbrividire sotto di me e mi lasciai andare.