Tuttavia le forme erano intriganti. Scivolavano oltre la carrozzella di Arlen piegandosi e aprendosi, alcune apparendo chiare e altre indistinte al limite della percezione conscia. Sentii il sangue scorrere più forte nelle vene, quell’improvviso stimolo di vita che si ha a volte davanti al sesso, alla primavera o alla sfida. Non ero immune ai subliminali. Questi dovevano essere fantastici.
Sbirciai nella carrozza del treno a gravità. I Vivi stavano immobili con le facce premute contro il vetro. Desdemona guardava a bocca aperta, una piccola buca rosa.
Mi rivolsi nuovamente verso Drew Arlen, che dipanava ancora la sua semplice storia. Aveva una voce musicale. La storia era una specie di pseudo ballata popolare priva di sottigliezze, priva di ironia, priva di arte. Le parole rappresentavano soltanto il nudo scheletro su cui scintillava la grafica. Mi era stato detto che ogni persona provava un’esperienza diversa rispetto a un concerto di Drew Arlen, a seconda dei simboli liberati ed evidenziati dalle possenti esperienze infantili, immagazzinate in ogni mente. Mi era stato detto, ma non ci avevo creduto.
Camminai esternamente lungo il treno, nel buio, analizzando i volti dei Vivi dietro ai finestrini. Alcuni erano bagnati di lacrime. Qualsiasi cosa stessero provando sembrava più intensa di tutto ciò che io avevo provato, più intenso della droga o di un lavaggio di nervi. Intenso come un orgasmo.
Nessuno regolava il Sogno Lucido. Arlen aveva un esercito di scadenti imitatori. Non duravano mai a lungo. Qualsiasi cosa stesse facendo Drew Arlen, era l’unica persona al mondo che sapesse come farlo. La maggior parte dei Muli lo ignoravano.
Drew Arlen, come tutto il mondo sapeva, era l’amante di Miranda Sharifi. Era l’unico Dormiente che entrava e usciva da Huevos Verdes a suo piacimento. L’ECGS lo seguiva costantemente, ovvio, insieme con tanti reporter da poter riempire una cittadina. Erano soltanto i suoi concerti che non prendevano seriamente.
Tornai lungo il treno e risalii nella mia carrozza. L’uomo dalla testa grossa era l’unico che non stava pressato contro il finestrino. Giaceva steso su un sedile vuoto, dormendo. O facendo finta di dormire. Per non restare ipnotizzato? Per meglio osservare gli effetti della rappresentazione di Arlen?
Il concerto procedeva noiosamente. Quando tutto terminò, le persone si voltarono l’una verso l’altra, abbracciandosi emozionate, ridendo e piangendo e quindi si riversarono sulla fredda prateria in direzione dell’ologramma di Drew Arlen. Egli sorrideva dolcemente ai propri discepoli. Le forme che lo circondavano erano svanite a meno che non stessero frusciando a livello subliminale, il che era possibile. Alcuni Vivi infilarono le mani nell’ologramma, cercando di raggiungerlo. Desdemona danzò all’interno della piramide e appoggiò la testa sulla coperta posta sopra le ginocchia di Arlen.
Papà Vivo disse all’improvviso: — Scommetto che potremmo camminare, noi, fino al paese più vicino.
— Be’… — commentò qualcuno. Altre voci si unirono al coro.
— Se seguiamo i binari e restiamo insieme, noi…
— Guardiamo se alcune delle luci sul tetto sono portatili…
— Alcuni di noi dovrebbero rimanere indietro con i vecchi.
L’uomo dalla testa grossa osservava tutto attentamente. Quello fu il momento in cui fui certa. L’intero guasto alla ferrovia a gravità in quel posto abbandonato dalla tecnologia era stato una messa in scena, per controllare l’effetto del concerto di Arlen.
Come? Da parte di chi?
No. Non erano quelle le domande giuste. La domanda giusta era: quale era l’effetto del concerto di Arlen?
— Tu, allora, Eddie te ne resti qui con i vecchi. Tu, Cassie va’ a parlare con la gente delle altre carrozze. Vedi un po’ chi è che vuole venire con noi. Tasha…
Occorsero dieci minuti di discussione per organizzarsi. Strapparono le luci dal tetto di sei carrozze: erano portatili. La gente che sarebbe rimasta diede giacche extra alle persone che sarebbero andate. Il primo gruppo stava appena incamminandosi lungo il binario quando una luce balenò nel cielo. Un secondo dopo fui in grado di sentire il rumore dell’aereo.
I Vivi si fecero silenziosi.
Nell’aereo si trovava un tecnico della ferrovia a gravità, fiancheggiato da due robot della sicurezza che proiettavano uno scudo di sicurezza personale ed erano anche dotati di armi, stile "niente stronzate qui attorno". La folla li guardò in silenzio. Il bel volto modificato geneticamente del tecnico sembrava tirato. I tecnici sono un gruppo sempre teso: modificati geneticamente in quanto ad aspetto fisico non hanno il QI e le abilità potenziate che costano ai futuri genitori un sacco di soldi in più. Li si trova a riparare macchinari, a gestire distribuzioni nei depositi, a supervisionare i robot infermieri o bambinaie. I tecnici non sono certamente Vivi, ma anche se abitano nelle enclavi, non sono nemmeno esattamente Muli. E lo sanno.
— Signore e signori — disse il tecnico con espressione infelice — la Ferrovia a gravità Morrison Spa e il Senatore Cecilia Elizabeth Dawes si scusano per il ritardo con cui il vostro treno viene riparato. Circostanze al di là della nostra volontà…
— E io sono un politico, io! — strillò amaramente qualcuno.
— Per che cosa vi votiamo, brutti scemi?
— Meglio dire al Senatore che su questo treno qui si è persa un bel po’ di voti!
— Il servizio che meritiamo…
Il tecnico si diresse risoluto verso la motrice, a occhi bassi, scortato dai robot. Colsi il debole scintillio di un campo a energia-Y mentre passava. Alcuni dei Vivi, tuttavia, sei o sette, lanciarono un’occhiata lungo il binario, che si stendeva nell’oscurità ventosa, con gli occhi lucidi per quello che avrei potuto giurare essere rammarico.
Al tecnico occorsero in tutto tredici minuti per riparare il motore. Nessuno lo importunò. Egli se ne andò via con il suo aereo e il treno riprese la marcia. I Vivi si rimisero a giocare a dadi, si lagnarono, dormirono, si occuparono dei figli petulanti. Io attraversai tutte le carrozze alla ricerca dell’uomo dalla testa grossa. Era sparito mentre io stavo osservando la reazione dei Vivi nei confronti del tecnico Mulo. Dovevamo averlo lasciato indietro, sulla ventosa prateria, celato dall’oscurità.
5
Una volta ogni tanto io ci ho bisogno di uscirmene nei boschi. Non lo dicevo mai a nessuno. Adesso, però quando ci vado, due o tre volte all’anno, lo dico ad Annie e lei mi prepara un po’ di roba da mangiare cruda presa dalla cucina: mele, patate e soia sintetica che ancora non sono state trasformate in pietanze. Io me ne resto là fuori da solo, per cinque o sei giorni, lontano da tutto quanto: il caffè, gli olo-balli, la musica spacca timpani, le distribuzioni al deposito, i delinquenti forniti di mazze e perfino l’energia-Y. Mi faccio dei falò, io. Qualche persona non ha mai lasciato East Oleanta da vent’anni se non per andare con la ferrovia a gravità in un altro paese esattamente uguale. Il centro dei boschi per loro potrebbe anche essere in Cina, penso che quelli sono spaventati dall’idea di trovarsi là fuori.
Me ne dovevo partire per i boschi la mattina dopo che la cucina del caffè si è rotta. Di certo però non avevo intenzione di lasciare Annie e Lizzie senza cibo e neanche di andare in posti dove c’erano procioni con la rabbia e un robot di guardia rotto.
Lizzie stava vicino al mio lettino in camicia da notte, una scintillante macchia rosa nel sonno del mattino. — Billy, pensi che la cucina è già stata messa a posto?
Annie è venuta fuori dalla sua stanza da letto, sbadigliando, ancora con la camicia da notte in plastica. — Lascia in pace Billy, Lizzie. Hai fame?
Lizzie ha annuito. Mi sono seduto sul divano con una mano che mi schermava gli occhi dal sole del mattino che veniva dalla finestra. — Ascolta, Annie. Ho pensato. Se riparano quella cucina dovremmo cominciare a portarci via tutto il cibo che riusciamo e a immagazzinarlo qui. In caso che si rompe di nuovo. Possiamo prenderci fino al limite del gettone-pasto ogni giorno — tu e Lizzie non lo fate praticamente mai e nemmeno io — e poi la roba cruda della cucina. Patate, mele e altro.