Mi rifiutai tuttavia di cedere al pessimismo. Miranda era mia. La seguii alla stazione della ferrovia a gravità, soddisfatta di come mi stesse tornando in mente, con facilità, tutto il mio vecchio addestramento. Salimmo su un treno locale diretto a nord. Ci accomodammo in una carrozza affollata e maleodorante con così tanti bambini che sembrava quasi che i Vivi dovessero riprodursi lì sul pavimento sporco.
Ci fermammo ogni venti minuti circa in qualche oscura cittadina di Vivi. Non osai dormire: Miranda poteva scendere da qualche parte senza di me. E se il viaggio fosse durato giorni? Arrivati al mattino mi ero abituata a sonnecchiare fra una fermata e l’altra, il mio inconscio allertato. In una pausa sognai di avere perduto Miranda e che il Tribunale Scientifico mi aveva messo sotto processo per inutilità nei confronti dello stato. Il peggiore fu il sogno in cui mi veniva iniettato il Depuratore Cellulare e mi rendevo conto che in effetti era chimicamente identico al detersivo industriale usato dal mio robot delle pulizie nell’enclave di San Francisco e che ogni cellula del mio corpo si stava dolorosamente sciogliendo in candeggina e ammoniaca. Mi svegliai boccheggiando, il mio volto appariva distorto contro il vetro nero.
In seguito rimasi sveglia. Osservai Miranda Sharifi mentre il treno a gravità, miracolosamente privo di guasti, scivolava attraverso le montagne della Pennsylvania e dentro lo Stato di New York.
7
C’era una grata nella mia testa. Non riuscivo a farla andare via.
La sua forma vi fluttuava ormai costantemente, assomigliando parzialmente ai graticci su cui si arrampicano le rose. Era del color porpora scuro che assumono gli oggetti nel tardo tramonto quando è difficile distinguere di che colore sia effettivamente qualsiasi cosa. Miri mi ha detto una volta che nulla ha "realmente" un colore, era tutta questione di "lunghezza d’onde riflesse accidentale". Non capii quello che intendeva dire. Per me i colori sono troppo importanti per essere accidentali.
La grata si piegava e si chiudeva su se stessa formando un cerchio. Non riuscivo a vedere che cosa c’era all’interno del cerchio, anche se la grata aveva fori a forma di rombo. Tutto ciò che si trovava all’interno rimaneva completamente nascosto.
Non sapevo che cosa fosse quel segno grafico. Non mi suggeriva assolutamente nulla. Non riuscivo a costringerlo a suggerirmi qualche cosa, a cambiarne la forma o a farlo andare via. Non mi era mai successo in precedenza. Io ero il Sognatore Lucido. Le forme che provenivano dal mio inconscio profondo erano sempre cariche di significato, sempre universali, sempre malleabili. Io le modellavo. Le portavo in superficie, al mondo conscio.
Guardai l’ultimo giorno di Miri al Tribunale Scientifico sull’olo-visore in una camera d’albergo a Seattle, dove avevo in programma di dare il concerto revisionato de Il Guerriero il pomeriggio successivo. Le robo-camere zoomarono su Leisha e Sara mentre le due salivano sull’aeromobile sopra il tetto del Foro. Sara aveva esattamente lo stesso aspetto di Miri. L’olo-maschera sul suo volto, la parrucca, il nastro rosso. Camminava perfino come Miri. Gli occhi di Leisha avevano l’espressione tesa che stava a significare che era furiosa. Aveva già scoperto lo scambio? Forse lo avrebbe saputo in auto. Leisha non l’avrebbe presa bene. Nulla la frustrava di più di quando le si mentiva, forse perché lei era tanto sincera con se stessa. Ero felice di non trovarmi lì.
Forme rosse acuminate, tese di ansia, si misero a sfrecciare attorno alla grata color porpora che non scompariva mai.
Sara/Miri chiuse la portiera. I finestrini, ovviamente, erano opachi. Spensi l’olo-visore. Potevano passare dei mesi prima che vedessi di nuovo Miri. Lei riusciva a scivolare dentro e fuori da East Oleanta, in effetti era arrivata a Washington proprio da lì, ma Drew Arlen, il Sognatore Lucido sulla sua carrozzella ultramoderna, seguito ovunque dall’ECGS, non poteva. Anche se fossi andato a Huevos Verdes, Nikos Demetrios, Toshio Ohmura o Terry Mwakambe potevano decidere che un collegamento schermato con East Oleanta rappresentasse un rischio troppo grande da correre per una semplice comunicazione personale. Avrei potuto non parlare con Miri per mesi.
Le forme rosse acuminate si calmarono un poco.
Mi versai un altro scotch. Quello a volte riusciva ad attutire le forme dell’ansia. Cercavo comunque di stare attento con quella roba.
Il videotelefono trillò con due squilli brevi. Due squilli significavano che chi chiamava non si trovava nella lista approvata, ma che il programma telefonico di Kevin Baker aveva deciso lo stesso che si trattasse di qualcuno che io potevo voler vedere. Non sapevo come facesse a deciderlo. "Logica confusa" aveva detto Kevin, cosa che non mi aveva creato alcuna forma nella mente.
Penso che in quel momento io avrei parlato semplicemente con chiunque. Eliminai tuttavia il video.
— Signor Arlen? È lì? Sono Elias Maleck. So che è molto tardi ma gradirei che mi concedesse qualche minuto del suo tempo, la prego. È estremamente urgente. Preferirei non lasciare un messaggio.
Aveva un aspetto stanco: erano le tre del mattino a Washington. Mi versai un altro scotch. — Video, acceso. Sono qui, dottor Maleck.
— Grazie. Voglio dirle subito che si tratta di una comunicazione schermata e che non viene registrata. Nessuno può sentirla a parte noi due.
Ne dubitavo. Maleck non aveva" la minima idea di che cosa potessero fare Terry Mwakambe o Toshio Ohmura. Anche se Maleck avesse vinto il premio Nobel per la Fisica e non per la Medicina, non lo avrebbe compreso. Maleck era un omone, di circa sessantacinque anni, non modificato in quanto ad aspetto fisico. Capelli grigi che si stavano diradando e stanchi occhi scuri. La pelle gli ricadeva in pieghe sui due lati del volto, ma le spalle erano ben squadrate. Lo avvertii come una serie di solidi cubi azzurro mare, infrangibili e puliti. I cubi si librarono davanti alla grata immobile.
— Non so precisamente da dove cominciare, signor Arlen. — Si passò una mano attraverso i capelli e i cubi azzurri acquistarono una sfumatura rossastra. Maleck era tesissimo. Sorseggiai il mio drink.
— Come ormai indubbiamente saprà, io ho votato contro il permesso di ulteriore sviluppo del brevetto di Huevos Verdes al Foro Federale per la Scienza e la Tecnologia. Le ragioni del mio voto sono chiaramente espresse nel giudizio di maggioranza. Ci sono tuttavia cose che un documento pubblico non può contenere, cose di cui vorrei avere il permesso di informare "lei".
— Perché?
Maleck fu franco. — Perché noi non abbiamo modo di parlare con Huevos Verdes. Accettano messaggi ma nessuna comunicazione a due vie. Lei rappresenta l’unico canale attraverso il quale io possa far pervenire informazioni sulla ricerca genetica direttamente alla signorina Sharifi.
Le forme nella mia mente si incresparono e si contorsero.
Dissi: — Come avete fatto a lasciare messaggi a Huevos Verdes? Come avete ottenuto il codice d’accesso per lasciare messaggi?
— Fa parte di ciò che voglio dirle, signor Arlen. Fra cinque minuti due uomini le chiederanno di entrare nella sua suite. Le vogliono mostrare qualcosa che si trova approssimativamente a una mezz’ora da Seattle in aereo. Lo scopo della mia chiamata è spingerla ad andare con loro. — Egli esitò. — Sono del governo. ECGS.
— No.
— Capisco, signor Arlen. È questo il motivo per cui l’ho chiamata, per dirle che non si tratta di una trappola o di un rapimento o di alcuna delle altre atrocità che io e lei sappiamo che il governo è in grado di fare. Gli agenti dell’ECGS la porteranno fuori città, la tratterranno circa un’ora e poi la riporteranno sano e salvo, senza averle inserito impianti, averla drogata, o averle fatto una qualsiasi altra cosa. Conosco quegli uomini "personalmente" e sono disposto a rischiare su questo la mia reputazione professionale. Sono certo che lei sta registrando la mia chiamata. Invii copie a chiunque voglia prima anche solo di aprire la porta della sua camera d’albergo. Ha la mia parola che verrà riportato sano e senza alterazioni. La prego di considerare che cosa sto mettendo io in gioco.