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Vidi Carmela Clemente-Rice in piedi accanto alla grata nella mia mente, una forma nitida e fresca che vibrava dolcemente.

— Voi "siete" dell’Ente governativo per il Controllo degli Standard Genetici — disse Leisha. — Non si trattava di una domanda. Era un avvocato: aspettava una risposta.

— Sì, signora. Agente Thackeray.

— Io e il signor Arlen vi siamo grati per il vostro aiuto. Ma con quale diritto…

Non scoprii mai quale fosse la questione legale che Leisha aveva intenzione di discutere.

Da dietro gli alberi, attraverso rampicanti aggrovigliati, dallo stesso terreno paludoso, eruppero uomini vestiti di stracci. Non c’erano e un istante dopo eccoli lì: questa fu l’impressione. Strillarono, urlarono e schiamazzarono. L’agente Thackeray e i suoi due sprezzanti sottoposti non ebbero nemmeno il tempo di estrarre le pistole. Giacendo sulla schiena, vidi gli straccioni di scorcio mentre sollevavano le pistole e sparavano in un modo che sembrava, ma non poteva essere, a bruciapelo. Thackeray e i due agenti crollarono a terra, i corpi che si contorcevano. Sentii qualcuno dire: — Diavolo, sì, lei è un abominio, questa qui è Leisha Camden — e una pistola sparò ancora, una volta, due volte. La prima volta, Leisha gridò.

Io sollevai di scatto la testa verso di lei. Era ancora seduta con la schiena appoggiata contro l’albero di anona, ma adesso la parte superiore del corpo era china in avanti, con grazia, come se si fosse addormentata. Aveva due punti rossi sulla fronte, uno sotto l’altro e quello superiore macchiava una ciocca di capelli biondo chiari che era in qualche modo sfuggita al fango. Udii un lungo e profondo lamento e pensai: "È viva!". Finché non mi resi conto che il lamento era il mio.

L’uomo che aveva detto "Diavolo, sì" si chinò su di me. Il suo alito mi soffiò in faccia: puzzava di menta e tabacco. — Non si preoccupi, signor Arlen. Noi sappiamo che lei non è un abominio contro natura. È al sicuro come a casa.

— Jimmy — disse tagliente una voce di donna: — Eccoli che arrivano!

— Be’, Abigail, sei pronta per loro, no? — disse Jimmy in tono ragionevole. Cercai di strisciare verso Leisha. Era morta.

Leisha era morta.

Un aereo ronzò sopra le nostre teste. La squadra medica. Avrebbero potuto aiutare Leisha. Ma Leisha era morta. Ma Leisha era un’Insonne. Gli Insonni non morivano. Vivevano, continuavano a vivere, Kevin Baker aveva 110 anni. Leisha non poteva essere "morta"…

La donna che si chiamava Abigail balzò giù dal terrapieno verso la palude. Indossava stivaloni alti fino alla vita, pantaloni e camicia rattoppati e portava un lanciarazzi montato sulla spalla, vecchio di progettazione, ma scintillante per olio di gomito e lucidante. Abigail puntò, sparò e fece esplodere l’aereo in un secondo falò nella palude.

— Okay — disse allegramente Jimmy. — Ben fatto. Venite, andiamocene via, saranno qui in un batter d’occhio. Signor Arlen, mi dispiace che per lei sarà un viaggio scomodo, signore.

— No! Non posso lasciare Leisha! — non sapevo quello che stavo dicendo.

— Certo che può — disse Jimmy. — Non potrà diventare più morta di così. E lei non è comunque uno della sua razza. Adesso sta con James Francis Marion Hubbley. Campbell? Dove sei? Portalo in spalla.

— No! Leisha! Leisha!

— Cerchi di avere un po’ di dignità, figliolo. Non è un moccioso che piagnucola dietro alla mamma.

Un omone alto due metri mi sollevò e mi gettò sopra una spalla. Non provavo dolore alla gamba, ma non appena il mio corpo colpì il suo, una fiammata rossa mi sfrecciò lungo la spina dorsale fino al collo e gridai. Il fuoco mi riempì la testa e l’ultima immagine che ebbi di Leisha Camden fu quella del suo corpo accasciato con grazia contro l’albero di anona, avvolto nel fuoco rosso della mia mente, che sembrava si fosse appena addormentata serenamente.

Mi risvegliai in una stanzetta priva di finestre con pareti lisce. Troppo lisce, non una singola nano-deviazione dal liscio, dal perpendicolare, dall’immacolato. Non mi resi conto, allora, di averlo notato. Avevo la mente stipata di cordoglio che affiorava in spruzzi, in geyser, in fiumi di lava incandescente dello stesso colore dei due punti sulla fronte di Leisha.

Lei era davvero morta. Lo era davvero.

Chiusi gli occhi. La lava incandescente era ancora lì. Picchiai i pugni per terra e maledissi il mio corpo inutile. Se mi fossi potuto muovere per farle da scudo, se avessi potuto frappormi fra lei e gli straccioni assassini…

Nemmeno gli addestrati agenti dell’ECGS erano stati in grado di proteggerla. O di proteggere se stessi.

Non riuscivo a trattenere le lacrime e la cosa mi imbarazzava. La lava aveva travolto la grata chiusa nella mia mente, l’aveva seppellita come stava seppellendo me. Leisha…

— Adesso la smetta, ragazzo. Un po’ di dignità. Non c’è nessuna donna generata dall’uomo che vale questo tipo di piagnisteo.

La voce era gentile. Aprii gli occhi e l’odio sostituì la lava incandescente. Ne fui contento. L’odio aveva una forma migliore: tagliente, fredda e molto compatta. Quella forma non mi avrebbe seppellito. Guardai la faccia preoccupata di James Francis Marion Hubbley che si profilava sopra di me; lasciai che le forme compatte mi scorressero dentro e seppi che sarei rimasto in vita, in allerta e col controllo di me stesso perché altrimenti non sarei stato in grado di ucciderlo. E seppi che l’avrei ucciso. Anche se avesse significato che la sua faccia sarebbe stata l’ultima cosa che avrei visto.

— Così va meglio — disse allegramente Hubbley e si sedette su un ceppo di albero, con le mani sulle ginocchia, annuendo con espressione di incoraggiamento.

Si trattava proprio di un ceppo d’albero. Le pareti si focalizzarono improvvisamente, a quel punto, e capii in che genere di posto mi trovavo. Avevo visto lo stesso tipo di pareti con Carmela Clemente-Rice e a Huevos Verdes. Si trattava di un bunker sotterraneo, scavato nella terra dai piccoli e precisi macchinari della nano-tecnologia, intonacato con una lega prodotta da altre piccole e precisissime macchine. Mangiare il terreno e stendere un sottile strato di lega non era difficile, mi aveva detto una volta Miri. Qualsiasi nano-scienziato competente era in grado di creare meccanismi nano-organici che potessero farlo. Le imprese lo facevano costantemente a dispetto delle regolamentazioni governative. Era soltanto la nano-tecnologia a base organica replicantesi che era difficile da ottenere. Chiunque era in grado di scavare una buca, ma solamente Huevos Verdes poteva costruire un’isola.

Hubbley però non sembrava affatto uno scienziato. Si chinò in avanti e mi sorrise. Aveva i denti marci. Ciuffi di capelli ingrigiti gli pendevano su entrambi i lati di una faccia lunga e ossuta con una pelle profondamente bruciata dal sole e con occhi azzurro chiari. Uno strano bozzo sotto la pelle gli deturpava il lato destro del collo. Poteva avere quaranta o sessant’anni. Indossava stracci di tela, non una tuta, di un marrone opaco e screziato ma gli stivali, alti e in buono stato, venivano quasi certamente da qualche deposito di merce di consumo. Non lo avevo mai visto prima di allora ma lo riconobbi. Apparteneva allo stagnante Sud.

Nella maggior parte del paese il "Deposito Supervisore Distrettuale Tizio o il Caffè Congressista Caio gestiti da Muli avevano abbattuto qualsiasi commercio indipendente. I Vivi potevano ottenere gratis tutto quello di cui avevano bisogno e allora perché pagare? Nell’agricolo Sud, tuttavia, e in qualche caso nell’Ovest, si trovavano ancora attività commerciali messe su alla meglio, motel malconci, case di tolleranza e pollai che da quarant’anni si facevano sempre più poveri, ma che tenevano duro perché, maledizione "il governo non ha nessun fottuto diritto di organizzarci la nostra vita". A tali persone non importava eccessivamente di essere povere. Erano abituate a essere povere. Era meglio che essere posseduti dai Muli. Mettevano in commercio oggetti artigianali, polli, fagioli o altri servizi. Disprezzavano le tute, le unità mediche e il software scolastico. Ovunque andassero avanti questi patetici commerci lì c’erano anche i criminali come Hubbley. Anche rubare era fuorilegge per il governo e quindi segno di orgoglio.