La palude si fece più densa e soffocante. I rami mi graffiarono il volto mentre pendevo, impotente, da sopra la spalla di Campbell. Serpenti grossi quanto il polso di un uomo strisciavano in pozze poco profonde. Un tronco affiorò, scivolò sotto l’acqua nera e scomparve in una fila di sibilanti bollicine. Alligatore.
Chiusi gli occhi. L’aria umida era carica della fragranza cerea delle orchidee fantasma che crescevano sui tronchi di strani alberi. Non erano parassiti. Vivevano d’aria.
Gli insetti ronzavano e pungevano, in una nuvola costante.
— Be’, eccoci arrivati — disse Jimmy Hubbley. — Signor Arlen, signore, come vanno le cose?
Non risposi. Ogni volta che lo guardavo la mente mi si riempiva delle forme dell’odio, fredde e ruotanti come lame. Leisha era morta. Jimmy Hubbley aveva ucciso Leisha Camden. Lei era morta. Io l’avrei distrutto.
Non sembrò importargli che non gli avessi risposto. Si era fermato sotto una enorme farnia carica di muschio grigiastro. Altri alberi si infittivano nelle vicinanze. Un antico cipresso caduto si era mezzo disfatto in poltiglia, coperta dai risucchianti viticci di un fico strangolatore. Nell’opaca mezza luce vidi una lucertola a strisce scendere velocemente lungo un viticcio. Dall’altra parte della farnia c’era una distesa verde scuro di muschio, soffice e livellato come il prato di un’enclave. Quel luogo puzzava pesantemente di marciume da giungla.
— Ora, figliolo, la prossima parte potrà sembrarle un po’ sconcertante. È davvero importante che si ricordi che non corre nessunissimo pericolo. Ecco, faccia un bel respiro, chiuda la bocca e si tappi il naso. Sa che le dico, andrò prima io per rassicurarla. Solitamente, va prima Abby, ma questa volta andrò io. In parte per rispetto alla sposa.
Sogghignò verso Abigail, facendo scintillare i denti rotti. Lei gli sorrise di rimando e abbassò gli occhi, ma un attimo dopo la colsi lanciare un’occhiata furtiva a uno degli altri uomini, un’occhiata dura e significativa come una granata. Jimmy Hubbley non la vide. Lanciò un grido da ribelle e balzò nella distesa di muschio.
Ansimai, il che mi inviò un inaspettato dolore lungo il fianco sinistro. Jimmy sprofondò immediatamente fino alla vita in una melma nera e gelatinosa che giaceva sotto al muschio. La sua unica speranza ora era di rimanere assolutamente immobile e lasciare che Campbell lo tirasse fuori. Scosse invece leggermente la parte superiore delle spalle, tenendosi tappato il naso con una mano e mantenendo l’altro braccio serrato lungo il fianco, con disinvoltura. Rimase immobile forse per circa dieci secondi e por qualcosa lo risucchiò dentro la fanghiglia. Il suo petto scomparve, quindi sparirono le sue spalle e infine la testa. Il muschio, con qualche macchietta di malta, gli si chiuse sopra.
Il cuore mi martellò contro i polmoni.
Abigail fu la successiva. Infilò il Cancellatore di Feromoni Harrison in una sacca di sintoplastica e la sigillò. Balzò quindi nel muschio e scomparve.
— Tappati il naso, tu — disse Campbell, le prime parole che avesse pronunciato.
— Aspetta. Aspetta. Io…
— Tappati il naso, tu. — Mi scagliò nella fanghiglia.
Il mio fianco sinistro provò un dolore lancinante. I piedi colpirono il muschio, ma lì non provavo alcuna sensazione, non la provavo da decenni. Soltanto quando fui sprofondato fino alla vita avvertii l’appiccicosa melma, incollata addosso come feci, fresca dopo l’aria afosa. Puzzava di marcio, di morte. Forme nere mi fluttuarono nella mente e mi divincolai, anche se una parte di me sapeva che dovevo rimanere assolutamente immobile, che non ci sarebbe stato alcun aiuto a meno che non fossi rimasto assolutamente immobile, "Leisha"… Qualcuno ridacchiò.
Qualcosa mi afferrò da sotto, qualcosa di incorporeo ma potente, come un vento. Mi risucchiò verso il basso. La fanghiglia mi salì sopra le spalle e quindi fino alla bocca. Mi coprì gli occhi riempiendo il mondo delle stesse forme fecali che avevo nella mente. Sprofondai.
Per la terza volta, aspettandomi di morire, la grata color porpora scomparve.
Mi trovai quindi steso sul pavimento di una stanza sotterranea mentre mani guantate mi afferravano e trascinavano me e il mio corpo carico di melma. Il dolore mi attanagliava il fianco sinistro. Qualcuno mi ripulì il volto. Le mani mi tolsero i vestiti e mi infilarono, nudo, sotto una doccia sonar e la melma mi cadde dalla testa e dagli abiti in scaglie secche che vennero a loro volta risucchiate da una specie di aspirapolvere che si trovava sul pavimento della doccia. Qualcuno mi applicò un cerotto medico sulla spina dorsale e il dolore scomparve.
— Potrà anche farsi una doccia vera se vuole — disse gentilmente Jimmy Hubbley. — Alcuni ne hanno bisogno. Quanto meno pensano di averne bisogno. — Era in piedi davanti a me già vestito con una tuta pulita, niente affatto rattoppata, indistinguibile da qualsiasi altro Vivo se si eccettuavano i denti così poco curati.
Abigail emerse dalla doccia ad acqua, disinvoltamente nuda, asciugandosi i capelli. Il suo ventre gravido ondeggiava leggermente. Suonò un campanello, dolce e acuto e Campbell venne risucchiato sulla piattaforma di atterraggio che, mi accorsi in quel momento, si estendeva a sole poche spanne sotto una bassa sporgenza. Due uomini tirarono subito via Campbell dalla piattaforma, ripulendogli gli occhi e il naso. Campbell si alzò, ricoperto di melma lucida e barcollò nella doccia a sonar.
— Toglietevi quei guanti lì, ragazzi, e aiutate il signor Arlen. Joncey, devi proprio togliere gli occhi dalla tua graziosa promessa sposa.
Uno dei due uomini arrossì leggermente. Hubbley sembrò pensare che fosse buffo e scoppiò in una risata ma io avvertii nella mente le forme della rabbia di Joncey. Egli non disse nulla. Abigail continuò, freddamente, ad asciugarsi i capelli, con il volto inespressivo. Joncey e l’altro uomo mi afferrarono sotto le ascelle e mi portarono, fra di loro, fuori dalla doccia sonar sistemandomi al centro della stanza. Joncey mi consegnò una tuta pulita.
— Che numero di scarpe porti? — Era più giovane di Abigail e aveva capelli scuri e occhi azzurri, bello in un modo selvaggio che non aveva nulla a che vedere con l’ingegneria genetica.
Dissi: — Vorrei indietro i miei vecchi stivali. — Erano di pelle italiana. Me li aveva regalati Leisha. — Mettili nella doccia sonar.
— È meglio che ti metti i nostri di stivali, tu. Che numero porti?
— Quarantatré.
Lasciò la stanza. Mi vestii. La grata mi era tornata nella mente, serrata come una delle piante esotiche di Leisha.
Lei era davvero morta.
Joncey tornò con un paio di stivali e una sedia a rotelle. Non era nemmeno a gravità: era dotata di vere e proprie ruote che si dovevano, apparentemente, girare a mano.
— Un pezzo di antiquariato — disse Jimmy Hubbley. — Mi dispiace signor Arlen, questa cosa qui è il massimo che possiamo fare così all’improvviso. Ci deve dare solamente un po’ di tempo.
Mi guardò sfolgorante, aspettandosi ovviamente un segno di sorpresa per il fatto che quel bunker sotterraneo fosse equipaggiato abbastanza bene da poter fornire a un inaspettato prigioniero menomato una sedia a rotelle. Non reagii. Un lieve disappunto gli balenò sul volto.
A quel punto avevo la sua forma. Voleva essere ammirato. James Francis Marion Hubbley. Non sapeva neanche che almeno due dei suoi seguaci, Abigail e Joncey, lo disprezzavano già.
Quanto?
Lo avrei scoperto.
Joncey e l’altro uomo mi issarono sulla sedia a rotelle. Infilai gli stivali da Vivo. Vestito, seduto invece che sballottato a terra come un pesce, mi sentii meno impotente. Leisha era morta. Io però avrei distrutto i bastardi che l’avevano uccisa.
Esaminai la stanza. Era bassa, non più di due metri in altezza: Campbell doveva rimanere chinato. I corridoi si irradiavano in cinque direzioni. Le pareti erano lisce come quelle di nano-tecnologia. Sapevo da Miranda che il punto debole di qualsiasi bunker sotterraneo schermato era l’entrata: quella che era più facilmente individuabile dagli esperti dell’ECGS. Il laboratorio di East Oleanta aveva un complesso scudo d’entrata creato da Terry Mwakambe: non c’era possibilità che l’ECGS potesse superarlo. Queste persone però non erano Super. Non potevano godere di una tecnologia più avanzata di quella che aveva il governo. Immaginai, tuttavia, che l’entrata a pozza paludosa rappresentasse un uso della tecnologia cui il governo non aveva ancora pensato, adattato da qualche scienziato pazzo che era cresciuto in una zona paludosa, e che fosse virtualmente non individuabile. Per il momento.