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Dov’era Miranda? E che cosa stava aspettando? A meno che qualcosa non fosse andato storto negli ultimi stadi del progetto. A meno che l’ECGS non avesse scoperto l’Eden, rintracciandolo tramite le voci disseminate con prudenza nelle piccole cittadine isolate dei Vivi.

Per la prima volta mi chiesi se sarebbe effettivamente venuta a prendermi.

— La grandezza della Costituzione sta nella Volontà del suo popolo — disse Jimmy Hubbley, con gli occhi chiari che brillavano.

"La grandezza della Costituzione sta nei suoi controlli ed equilibri" aveva sempre detto Leisha. Leisha.

La grata scura nella mia mente era ripiegata, stretta come un ombrello, impenetrabile, una linea acuminata e sottile che mi tagliava dentro.

Dove stavano i controlli e gli equilibri rispetto a Huevos Verdes?

— Portami ancora in giro per il campo — dissi a Peg.

Lei stava stravaccata su una sedia nella sala mensa e guardava una gara di scooter che si stava svolgendo da qualche parte in California. Una parte della California senza peste. — Non voglio, io, portarti di nuovo. Hai visto tutto quello che dovevi vedere, tu.

— Benissimo. Andrò da solo. — Mi allontanai da lei spingendo la sedia a rotelle. Non osavo esercitare la parte superiore del mio corpo, nemmeno dopo essere stato chiuso a chiave in camera di notte. Non riuscivo a vedere i monitor della sorveglianza ma sapevo che dovevano esserci. Mi accontentavo di alzarmi furtivamente pochi centimetri al di sopra dei braccioli della sedia svariate volte al giorno, sollevando le gambe inutilizzabili, attento a scegliere ogni giorno un luogo differente per farlo.

— Aspetta, tu — sospirò Peg e si alzò. Spinse con maniere rozze la sedia in avanti.

Un corridoio bianco con le porte, prive di segni caratteristici, bloccate. Ne incontrai altri due nelle medesime condizioni.

La zona di atterraggio, sorvegliata da Campbell che stava dormendo, ma non profondamente. Un altro corridoio bianco con le…

C’era un pezzo dell’abito da sposa di Abby impigliato su un punto sporgente della parete.

— Maledizione! — disse Peg con più energia di quanto non le avessi mai sentito dire prima. — Quella puttana non riesce a tenere mai niente in ordine, lei! Questa stupida roba è dappertutto! — Staccò selvaggiamente il piccolo rombo e lo strappò in pezzettini anche più piccoli, il volto pieno di furiose chiazze rosse. Aveva le lacrime agli occhi.

Perché mai c’era un punto sporgente su una parete nano-tecnologicamente liscia da lasciarci impigliato un ritaglio di pizzo?

— Stupida puttana! — ripeté Peg. Le si incrinò la voce.

— Caspita, Peg — dissi io. — Sei gelosa.

— Chiudi il becco, tu!

Per mezzo della zona dotata di zoom delle mie cornee notai che il punto sporgente sulla parete aveva l’aria di essere stato aggiunto. Non rappresentava un errore nella nano-programmazione, ma una sporgenza aggiunta in seguito, con un altro nano-assemblatore dotato di meccanismo a orologeria, manualmente. Perché?

Per fare impigliare un rombo di pizzo?

Ogni rombo era differente. Il pizzo era stato studiato in quel modo. Per creare uno schema unico su un abito da sposa vecchio stile.

Per creare un codice.

Peg si era ripresa. Mostrando ancora una volta un’espressione vacua, ma con gli occhi arrossati, si infilò il pezzo strappato di pizzo nella tasca dell’odiosa e inadatta tuta turchese. Aveva la bocca contratta in una smorfia di dolore. Nella mente non mi scivolò alcuna forma di simpatia. Peg non sapeva che cosa fosse il dolore. Peg non aveva visto morire Leisha, con il fango che le macchiava la sottile camicetta gialla e due punti rossi sulla fronte.

— Andiamo — disse lei con impazienza, come se fossi stato io a farla attardare.

Un codice. I frammenti di pizzo erano un codice, in un luogo in cui ogni parola, ogni azione, ogni incontro casuale era monitorato. E dove tutti erano incoraggiati a essere "ordinati" e a portar via la spazzatura perché il brigadiere generale Francis Marion era stato il più ordinato figlio di puttana che avesse mai attaccato l’esercito inglese.

Quante persone erano coinvolte? Quasi certamente Abigail e Joncey. Chi avevano con sé contro Hubbley? Avevano qualcuno anche all’esterno?

Vidi nuovamente l’involucro grigio. PROPRIETÀ DELL’ESERCITO STATUNITENSE. SEGRETO. PERICOLO.

— Visto — latrò Peg quando fummo tornati alla sala comune — hai visto tutto, tu! Adesso ce ne possiamo stare un po’ fermi?

— Mi stufo a stare fermo — risposi io. — Facciamo un altro giro. — E cominciai a spingere la primitiva carrozzella sentendomi alle spalle gli improperi.

Tre giorni dopo, tre giorni di incessante spingere, la porta dei quartieri privati di Jimmy Hubbley si aprì e lui e Abigail uscirono. Quando Abigail vide Peg, abbassò gli occhi, sorrise e fece finta di finire di allacciarsi la cerniera dei pantaloni della tuta.

Peg era alle mie spalle, dove non potevo vedere il suo volto, ma riuscii a sentire le sue mani, grandi e grezze sulle maniglie della sedia a rotelle. Capii che sapeva già di Abigail e Hubbley. Era ovvio. Tutti dovevano saperlo: non ci si poteva nascondere in un posto del genere. Joncey doveva accettarlo. Forse questo aiutava i progetti suoi e di Abby per la contro-rivoluzione. Forse lui pensava che Hubbley stesse soltanto diffondendo i suoi geni nel modo naturale e permesso per rafforzare il genoma umano. Forse Hubbley pensava di diffondere quelli di Francis Marion con ogni soldatessa carina che avesse rispetto dell’Ideale e della Volontà.

— ’Sera Peg — disse Hubbley. Lei tossì una specie di risposta. Abigail sorrise in modo riservato. Quella ragazza creava una forma nella mia mente: fiori con piccolissimi denti letali nel centro giallo sole.

— ’Sera, maggiore Hubbley — bofonchiò Peg. Non sapevo nemmeno che fosse stato promosso.

Adesso, però, lo avevo in pugno.

A cena la sala mensa era stipata. Abigail era seduta con degli amici, ridendo, cucendo il suo abito da sposa di pizzo bianco. Aveva il volto arrossato e allegro. Sopra di noi, nel mondo che conoscevo soltanto tramite l’olo-terminale, era novembre. Sessantasette giorni in un sotterraneo e Miranda non era arrivata.

Joncey era in piedi in mezzo a un gruppetto che guardava un paio di giocatori d’azzardo giocare a Devil. I dadi a dodici facce, fatti di un metallo scintillante, balenavano quando venivano lanciati in alto. Tutti strillavano e ridevano. Peg era stravaccata sulla sua sedia, col volto vacuo e le rozze mani appoggiate sulle ginocchia. Le avevo chiesto che mi portasse carta e penna, cosa che l’aveva resa dapprima sospettosa, quindi disgustata.

— Per farci che? Hai il terminale-biblioteca, tu.

— Voglio scrivere qualcosa.

— Puoi dire, tu, al terminale tutto quello che vuoi salvato.

— Voglio scriverlo. Su carta.

Il sospetto crebbe. — Sai scrivere?

— Sì.

— Pensavo che il maggiore Hubbley aveva detto, lui, che tu non eri un Mulo, tu.

— Sono stato in scuole per Muli. So scrivere. E tu non sai leggere?

— Certo che so leggere, io!

Probabilmente era vero, quanto meno un pochino. I bambini dei Vivi imparavano generalmente a leggere le parole fondamentali, se non a scriverle. Era necessario saper leggere i nomi sui pacchi nel deposito, sui cartelli stradali, sui tagliandi per scommettere agli scooter. Speravo maledettamente che sapesse leggere.

Un monitor invisibile mi stava ovviamente fissando. Mi chinai sulla carta che Peg mi aveva portato, fogli chiari ma ruvidi, destinati probabilmente per incartare qualcosa. Non riuscivo a ricordare quando fosse stata l’ultima volta che avevo scritto qualcosa. Non ero stato mai particolarmente bravo. La penna mi sembrava pesante in mano.