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Diana Covington — Albany

Non ci fu nulla da confiscare in qualità di prova. Giunsero altri aerei e Drew fece uso dei codici che facevano apparire la porta all’estremità del bunker. Architettai qualcosa per poter essere presente. La sicurezza era organizzata in modo caotico, eccetto che per Miranda Sharifi elettro-ammanettata alla betulla, con gli agenti che la fissavano come se si aspettassero un’ascensione antigravitazionale, albero e tutto il resto. Forse era così. Miranda, però, permise di essere catturata. Tutti compresero perfettamente che questo era ciò che stava accadendo: lei lo permise.

Nessuno, tuttavia, inclusa me, capì il perché.

Dietro alla porta del bunker non c’era nulla. Perfino le sterili pareti di fortificazione che erano state probabilmente lì si stavano autoconsumando a causa della stessa nano-tecnologia che le aveva costruite. C’era solamente una serie di tunnel stipati di terra e caverne che si estendevano fin dentro la montagna, pericolose da esplorare senza un equipaggiamento adeguato perché le pareti di terriccio si sgretolavano e minacciavano di franare all’interno. Era impossibile stabilire quanto fosse estesa la rete di caverne/tunnel. Era impossibile stabilire quelle fra loro che erano state nano-distrutte o rimosse prima del crollo. "Miri, stanno arrivando; Miri, non puoi…"

Cercai le sottili siringhe nere con le quali noi quattro eravamo stati iniettati, ma tutto quello che vidi fu una macchia nera sciolta, come cera di candela metallica, sul pavimento in fondo ai gradini dove erano stati stesi Billy e Lizzie.

Ci fu dell’altro e avvenne, incredibilmente, quasi come un ripensamento.

Prima, però, uno degli agenti mi arrestò. — Diana Arlene Covington, lei è in stato di arresto per violazioni del Codice degli Stati Uniti, Articolo 18, Comma 1510, 2381 e 2383.

Intralcio di indagini penali. Favoreggiamento alla ribellione o insurrezione. Tradimento. Dopotutto, dovevo essere un agente dell’ECGS.

Miranda mi osservava attentamente dalla betulla. Troppo attentamente. Drew era risalito sull’aereo. Noi dovevamo aspettare un secondo aereo, sia per maggiore spazio sia per maggior sicurezza. Con un’improvvisa finta che sorprese l’agente, mi tuffai sotto di lui e balzai in direzione di Miranda.

— Ehi!

Lei ebbe solamente il tempo di dirmi: — Altro nella siringa… — prima che l’agente infuriato mi riacciuffasse e mi trascinasse con espressione truce sull’aereo. La sua presa mi fece venire dei lividi sulle braccia.

Lo notai a malapena. "Altro nella siringa."

"L’intera portata del progetto" aveva detto lei a Drew Arlen.

Allora non si trattava solamente del Depuratore Cellulare, già abbastanza sconvolgente di per sé. Non c’era soltanto quello. C’era dell’altro.

Qualche altra tecnologia biologica: radicale, inaspettata. Inimmaginabile.

Qualcosa di più.

Quelli di Huevos Verdes non avevano avuto bisogno di allestire quell’elaborato laboratorio sotterraneo per perfezionare o testare il Depuratore Cellulare. Lo avevano già fatto, prima dell’udienza davanti al Tribunale Scientifico dell’autunno precedente.

Quelli di Huevos Verdes si erano aspettati di perdere la causa davanti al Tribunale Scientifico. Era stato chiarissimo già allora, quasi a tutti. Quello che non era stato chiaro era perché stessero presentando la causa, data la conclusione scontata. Era perché Miranda voleva la rassicurazione morale che tutte le vie legali legittime per il suo progetto fossero state chiuse, prima di completare la sua corsa lungo le vie illegali a East Oleanta.

Quanto sapeva l’agente? I capoccioni dell’ECGS, ovviamente, sapevano tutto. Arlen doveva averglielo detto.

Questa speculazione intellettuale durò soltanto un momento. Venne rimpiazzata, quasi istantaneamente, da una paura raggelante del genere che non ti fa sciogliere le ossa ma che te le irrigidisce, tanto che ti sembra di non riuscire mai più a muoverti o respirare.

Qualsiasi fosse quel progetto di bioingegneria, mi era stato iniettato. Èra nel mio corpo. Stava diventando me.

Ondeggiai andando a sbattere contro la carlinga in metallo, quindi mi ripresi. Avevo le dita leggermente bluastre per il freddo. L’unghia del medio si era rotta. La carne era liscia se si eccettuava un sottile taglio sull’indice. Il fango, ormai seccato, creava un lungo arco dal polso alle unghie. La mia mano. Aliena.

Dissi a voce alta a Miranda: — Che cos’era?

Nella mia mente lei voltò la sua testa deforme per guardarmi. Le lacrime, che ancora non cadevano, le facevano scintillare gli occhi. Disse: — Solo per il tuo bene.

— Secondo la definizione di chi?

La sua espressione non mutò. — Mia.

Continuai a fissarla. Quindi lei svanì, perché ovviamente era un’illusione, prodotta dallo shock. Non era realmente all’interno della mia testa. La mia testa era troppo piccola.

L’aereo decollò e venni portata ad Albany per essere rimandata in giudizio in tribunale.

Billy, Annie, Lizzie e io venimmo portati all’Ospedale di Ricerca degli Stati Uniti Jonas Salk ad Albany, un edificio altamente schermato, imponente per i suoi robot di sicurezza. Venni condotta lungo un corridoio. Allungai il collo per tenere sott’occhio la barella di Lizzie il più a lungo possibile.

In una stanza priva di finestre mi stava aspettando Colin Kowalski, insieme con un uomo che riconobbi immediatamente. Kenneth Emile Koehler, direttore dell’Ente governativo per il Controllo degli Standard Genetici. Colin non disse nulla e capii che non lo avrebbe mai fatto: era troppo inferiore di grado, presente soltanto perché aveva avuto la pessima idea di assoldare me, l’agente illegale che avrebbe potuto condurre l’ECGS da Miranda Sharifi prima di Drew Arlen e, di conseguenza, una collaborazionista altrettanto ufficiale. Ovviamente, però, per l’altra parte. Colin era in disgrazia. Arlen era probabilmente l’eroe che aveva, in ritardo ma giustamente, visto la luce. Io ero in stato di arresto per tradimento. Un perdente, uno che non rispettava le regole del gioco.

— D’accordo, Diana — disse Kenneth Emile Koehler. Pessimo inizio. Ero stata ridotta al nome proprio. Come un robot. — Dicci che cosa è successo.

— Tutto?

— Dal principio.

I registratori erano accesi. Drew Arlen aveva indubbiamente spillato fuori tutte le sue cellule cerebrali. Io non riuscivo proprio a trovare un motivo per non dire la verità: "Mi è stato iniettato nelle vene qualcosa di biotecnologico. Altro nella siringa".

Ma non volevo iniziare da lì. Sentivo piuttosto un desiderio irresistibile di iniziare dal principio, da Stephanie Brunell e il suo illegale cagnolino rosa modificato geneticamente che si era scaraventato oltre la ringhiera del mio terrazzo. Avevo bisogno di dire tutto, fino all’ultima azione, decisione e argomento intellettuale che mi avevano portato dal disgusto per la bioingegneria illegale alla sua difesa. Volevo spiegare chiaramente a me stessa così come a quegli uomini che cosa avevo esattamente fatto, perché e cosa significasse, in quanto era l’unico modo in cui l’avrei capito fino in fondo anch’io.