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— Il dieci dicembre. Lei è qui da trentaquattro giorni. — Parlò in direzione della parete. — Dottor Hewitt, la signorina Covington è di nuovo qui.

Di nuovo qui. Dov’ero stata? Non importava, lo sapevo. Mi trovai seduta su un letto d’ospedale bianco, in una stanza d’ospedale bianca stipata di apparecchiature mediche e di sorveglianza. Sotto il camiciotto usa e getta bianco le mie braccia, le gambe e l’addome erano ricoperti da piccole protuberanze chiare di sangue raggrumato. Qualcuno aveva preso un bel po’ di campioni.

— Lizzie? Billy? I Vivi che sono arrivati qui con me, erano in tre…

— Il dottor Hewitt sarà qui in un minuto.

— Lizzie, la bambinetta, era malata, è forse…

— Il dottor Hewitt sarà qui in un minuto.

Ci fu, insieme a Kenneth Emile Koehler. La testa mi si schiarì immediatamente.

— D’accordo, dottor Hewitt. Che cosa mi hanno fatto quelli di Huevos Verdes?

Sembravano aspettarsi la mia franchezza. Perché no? Avevamo passato trentaquattro giorni in intima comunione, senza che io potessi ricordare nulla. Egli disse: — Le hanno iniettato svariati e differenti tipi di nano-meccanismi. Alcuni sono costruiti sulla base di organismi di bioingegneria, primariamente virus. Alcuni sembrano essere esclusivamente macchinari, creati un atomo alla volta, che hanno trovato alloggio nelle sue cellule. La maggior parte di essi sembra autoreplicante. Alcuni, supponiamo, hanno un meccanismo a orologeria che ne programma la replicazione. Lì stiamo studiando tutti, cercando di determinare l’esatta natura di…

— Che cosa "fanno" questi macchinari? Che cosa è stato cambiato nel mio corpo?

— Non lo sappiamo ancora.

— Non lo sapete? — Notai io stessa quanto fosse stridula la mia voce. Non me ne importò.

— Non completamente.

— Lizzie Francy? Billy Washington? Lizzie era malata…

— Una parte dell’iniezione che vi è stata fatta conteneva il meccanismo del Depuratore Cellulare, come lei già sa. Ma il resto… — Una strana espressione passò sul volto di Hewitt, risentita e struggente. Non avevo alcuna intenzione di dare retta alla sua espressione. Ero presa da una specie di frenesia improvvisa, del tipo che ti fa pensare che non potrai sopravvivere entro i successivi cinque minuti se non conoscerai informazioni che sai già che rifiuterai nei cinque minuti successivi a essi.

— Dottore, cosa pensa che farà questa fottuta iniezione?

Il suo volto si contrasse. — Non lo sappiamo.

— Ma dovete sapere "qualcosa"…

Un robot arrivò sulle rotelle attraverso la porta. Aveva la forma di un tavolino, con una inutile griglia che suggeriva un volto sorridente. Sulla sua superficie si trovava un vassoio coperto. — Pranzo per la Stanza 612 — disse gradevolmente il robot. Sentii odore di riso, pollo, roba vera, non soia sintetica, cibi che non avevo gustato da mesi. Mi venne improvvisamente una fame da lupo.

Tutti mi guardarono mangiare. Mi guardarono con una intensità particolare. Non me ne importava niente. Il sugo del pollo mi gocciolava lungo il mento, i grani di riso mi scivolavano dalle labbra. I denti erano stuzzicati dalla gradevole dolcezza del lacerare carne. Piselli freschi e dolci, salsa di mele speziata. Ero famelica, consumata da ciò che stavo consumando. Nessuna quantità poteva essere sufficiente.

Quando ebbi terminato, mi stesi nuovamente sui cuscini, curiosamente esausta. Hewitt e Koehler avevano espressioni identiche e non riuscivo a decifrare nessuna delle due. Ci fu un lungo silenzio, inutilmente pregno, per quello che mi riguardava.

Dissi: — E allora? Quando verrò rimandata a giudizio?

— Non è necessario — rispose Koehler. Il suo volto era ancora imperscrutabile. — È libera di andarsene.

Il mio improvviso sfinimento sparì altrettanto improvvisamente. Non era così che funzionava il sistema.

— Sono in stato di arresto per avere ostacolato la giustizia, cospirato a sovvertire…

— Le imputazioni sono state lasciate cadere — disse Hewitt.

Parlai lentamente: — Fatemi vedere un olo-notiziario.

Koehler ripeté la frase di Hewitt, con voce atona: — È libera di andare.

Portai le gambe oltre il margine del letto. Il camicione da ospedale mi avvolgeva come una tenda, informe. Nei grandi momenti le cose piccole erano importanti: il modo del mondo per mantenerci insignificanti. Chiesi bruscamente: — Dove sono i miei vestiti? — Come se avessi veramente voluto la dozzinale tuta e il parka pieni di fango che avevo indossato quando ero arrivata in ospedale.

Ovviamente ci sarebbero stati monitor corporei. Cimici sub-epidermiche, indicatori radioattivi del sangue, chissà cos’altro. Non li avrei mai trovati.

Un robot mi portò gli abiti. Li infilai, senza badare al fatto che gli uomini stessero a guardare. Le solite regole non si applicavano.

— Lizzie? Billy?

— Sono usciti due giorni fa. La bambina è guarita.

— Dove sono andati?

Koehler disse: — Non possediamo questa informazione. — Stava mentendo. Le sue informazioni mi erano interdette. Io ero fuori dalla rete governativa.

Uscii dalla stanza, aspettandomi di essere bloccata nel corridoio, all’ascensore, nell’atrio. Uscii anche dalla porta principale. Non c’era in giro assolutamente nessuno, nessuno che si stesse affrettando a entrare per far visita a un fratello, una moglie o un partner commerciale. Un robot si stava occupando dell’erba primaverile, che, ai miei occhi abituati a East Oleanta, appariva aggressivamente modificata geneticamente riguardo al verde. L’aria era dolce e calda. La luce primaverile batteva sopra di essa producendo lunghe ombre da tardo pomeriggio. Un albero di ciliegio era carico di fragranti fiorellini rosa. Il parka che avevo addosso era decisamente troppo pesante: lo tolsi e lo lasciai cadere sul marciapiede.

Camminai lungo tutto il lato dell’edificio, chiedendomi che cosa avrei fatto adesso. Ero realmente curiosa, in un modo così distaccato che mi avrebbe dovuto allertare rispetto a quanto tranquillamente e stupidamente folle fossi in quel momento. La realtà poteva soltanto interessarmi, non sorprendermi. Perfino l’interesse era precario. Il passo successivo sarebbe stata la catatonia.

Raggiunsi l’angolo dell’edificio e svoltai. C’era una navetta, compatta, verde come l’erba bio-tecnologica. La portiera era aperta. Entrai.

Il bus disse: — CARTA DI CREDITO, PER FAVORE.

Armeggiai con le mani nelle tasche della tuta. Doveva esserci una carta di credito da qualche parte: non un gettone-pasto da Vivo, ma una carta di credito da Mulo. La inserii nella fessura. La navetta disse: — GRAZIE.

— Che nome c’è su quella carta?

— AVETE SUPERATO LA CAPACITA DI LINGUAGGIO DI QUESTA UNITÀ. DESTINAZIONE. PREGO? CIVIC PLAZA. HOTEL SHEHERAZADE. HOTEL IOTO. STAZIONE CENTRALE FERROVIA A GRAVITÀ O PIAZZA EXCELSIOR?

— Stazione Centrale ferrovia a gravità.

Le portiere della navetta si chiusero.

C’rano molte persone in stazione, Vivi vestiti con brillanti tute e pochi Muli del governo; eravamo ad Albany, la capitale dello stato. Tutti sembravano avere una gran fretta. Entrai nel Caffè della Stazione Centrale Governatore John Thomas Lividini. Creano tre uomini ammassati a un tavolinetto d’angolo che parlavano animatamente. La catena del cibo si era fermata. L’olo-canale mostrava una gara di scooter e nessuno degli uomini sollevò lo sguardo quando cambiai per sintonizzarmi su un canale-notiziario dei Muli.

— "…continua a diffondersi negli stati del centro occidentali e meridionali. Visto che il virus biotecnologico può essere trasmesso da moltissime specie di animali e uccelli, il Centro per il Controllo Malattie raccomanda di evitare qualsiasi contatto con la fauna selvatica. Essendo la pestilenza anche estremamente contagiosa fra gli umani…"