Paolo Villaggio
MI DICHI
Prontuario comico della lingua italiana
L’origine della lingua italiana
Dove oggi si trovano i famigerati “li Castelli” romani, famosi per le agghiaccianti gite fuori porta e per il vino pestilenziale, soprattutto nella cittadina di Albano Laziale, mentre i ricchi e i ladri andavano a Saint Moritz, i poveri si ubriacavano con bicchierate di zolfo cantando: “Er vino de li Castelli è più mejo de lo Sciampagne!”
Lì, intorno all’ anno Mille a.C., c’era un piccolo villaggio di pastori che si chiamava Alba Longa. Era un posto su una collina deprimente dalla quale si vedeva una palude piena di zanzare e rane.
Gli abitanti parlavano una lingua povera chiamata “latino”. Questo linguaggio elementare fu poi esportato dai famosi gemelli Romolo e Remo sui “colli fatali di Roma”. I due, però, non andavano molto d’accordo e la cosa purtroppo finì a schifìo. Ma i villani del posto, che vivevano di rughetta, ricotta, rognonata d’abbacchio alla brace e “cofane” di rane bollite, continuarono ugualmente a usare quell’ ignobile parlata albalonghese.
Poi una notte, di colpo, intorno al 736 a.C., arrivarono dal mare i Fenici, che nel Lazio si fecero chiamare Etruschi e, a Cartagine, Punici. Questi Etruschi avevano una cultura di gran lunga superiore a quella dei pastori dei colli romani, e sotto la loro guida li fecero diventare i padroni del mondo conosciuto.
Fatti fuori i nemici più pericolosi, che erano i Cartaginesi, i Romani conquistarono anche la Grecia, la culla della civiltà più importante del mondo antico. E qui siamo costretti a una citazione latina: Graecia capta ferum victorem cepit. Ovvero: “La Grecia, conquistata (dai Romani), conquistò il suo feroce vincitore”. Ecco quindi una lingua imperiale arricchita dall’ etimo di molte parole dell’ Eliade: il latino di Virgilio, Orazio, Cicerone, Catullo, Tibullo e Tito Livio. Nel 476 d.C., di notte, Roma fu conquistata da orde di barbari affamati, e tutto il grande impero, in pochi anni, fu sgretolato da quegli extracomunitari che parlavano una lingua che assomigliava al tedesco di oggi, che ruttavano in maniera devastante e odiavano gli ebrei.
In pochi anni quei ruttatori da competizione furono conquistati dalla cultura imperiale e il latino divenne la loro lingua ma, purtroppo, anche la lingua ufficiale della Chiesa. E così, con il passar dei secoli, in Spagna, in Provenza, nel resto della Francia e in Italia si parlarono le lingue così dette neolatine, o “volgari”: lo spagnolo, il portoghese, il francese, il romeno, l’ italiano e il sardo.
Erano lingue rozze; per farvi un esempio, l’ italiano era esattamente quello che ai nostri giorni parla un certo Di Pietro, un ex giudice che ha fatto carriera in politica.
Come è iniziato l’ interesse per il corretto uso della lingua italiana
I medici hanno la perfidia di usare nei ricettari caratteri quasi invisibili per il 70 per cento della popolazione e cioè dai quarant’anni in poi, esclusi i ciechi. Da molti disgraziati gli otorinolaringoiatri sono confusi spesso per idraulici. E loro si vendicano e scrivono in geroglifico: “Soffre di ipoacusia di quarto grado, ma non è ancora cafuso. Accusa inoltre: presbiacusia, presbiofrenia, presbiopia, diplofonia, diplegia, diplopia”. Nessuno, neppure Sgarbi e Zecchi, è in grado di capire quello che scrivono questi farabutti.
Dopo aver torturato uno di questi specialisti, traduciamo.
Ipoacusia: sordità di quarto grado.
Cafuso: sordo come una campana.
Presbiacusia: distorsione del suono delle parole dovuta alla diminuzione dell’ udito nella vecchiaia, cioè capire fischi per fiaschi.
Presbiofrenia: demenza senile, cioè rincoglionimento grave.
Presbiopia: incapacità di vedere gli oggetti vicini, di leggere gli orari ferroviari e le controindicazioni sui fogli illustrativi dei farmaci, causa, questa, di molti decessi archiviati dalla polizia come “morti per motivi ignoti”.
Diplofonia: tipico disturbo di molti anziani che dicono una parola per un’altra. Esempio: per chiamare la moglie, «Maria, vieni qui!», dicono: «Merda, vieni qui!». Molti mariti lucidissimi fingono questo disturbo.
Diplegia: paralisi di due parti simmetriche del corpo. Esempio: orecchie, braccia, mignoli ecc. Molti mariti, dopo vent’anni di matrimonio, simulano questo disturbo all’ apparato genitale.
Diplopia: vederci doppio. Per i veci alpini furlani è dovuta all’ assunzione di sette “graspe” a stomaco vuoto, fenomeno diffuso nei loro agghiaccianti raduni che, fortunatamente, si stanno estinguendo per cirrosi epatica dei partecipanti.
È evidente, a questo punto, la perfidia degli “autorevoli” componenti dell’ Accademia della Crusca, dei funzionari della Dante Alighieri e dei compilatori di vocabolari, con in testa quel farabutto dello Zingarelli, lapidato da un gruppo di fondamentalisti islamici perché scambiato per una moglie infedele.
Questi accademici, di una noia ipnotica, sono stati costretti per tutta la vita a un’attività sessuale limitata a una umiliante masturbazione a quattro mani nei cessi fetidi dei loro istituti di cultura, sviluppando un risentimento feroce per tutto quello che li circondava, e quindi, per puro sadismo, hanno fatto piangere maestri di scuola elementare, braccianti calabresi, tassisti romani, casalinghe in menopausa, preti pedofili, operai e politici di provincia confinandoli in una specie di limbo maledetto dove si parla e si scrive un italiano di serie C, perché quello di serie B si parla in televisione mentre quello loro, di serie A, è in via di estinzione.
Ecco le prove.
Alla ricerca dell’ Accademia della Crusca
Per avere indicazioni esatte sulle attuali condizioni della lingua italiana, ho consultato i famigerati membri della rinomata Accademia della Crusca, che pare ancora in vita e attiva a Firenze. Mi sono mosso a tentoni.
A un “fiaccheraio” ottantenne di nome Lapo, che aveva una carrozzella con attaccato un cavallo di nome Lapo anche lui, di circa diciott’anni, ho domandato: «Mi accompagna all’ Accademia della Crusca, per favore?».
«Come la vole, ma l’è su a Bellosguardo!» Alla parola Bellosguardo il vecchio cavallo ha fatto una scoreggia di protesta, rimbombante. «Senti Lapo, ti piaccia o no non si po’ resta costì! Ci devi portar colà.»
Lapo, il cavallo e non il fiaccheraio, anche se la cosa non è del tutto certa, ha fatto un’ultima devastante scoreggia a soffione e ha iniziato ad arrampicarsi lentamente sulla collina di San Miniato. Dopo un’ora di cammino nella campagna piena di ulivi e cipressi, Lapo il cavallo si era fermato vicino a un grande mulino. Il fiaccheraio dormiva: «Signor Lapo, il cavallo si è fermato!». Il vecchio si è svegliato con un urlo agghiacciante: «Che diavolo succede costì? Madonna sul ciuco!.. Ah, scusi! S’è arrivati»
«E dov’è l’ Accademia?»
«L’è lì o l’è là, comunque l’è costì.»
Il vecchio ha fatto un gesto indicando il mulino.
Il portone era aperto e, dopo aver bussato invano, sono entrato.
«Permesso? È permesso?»
Dentro l’ edificio c’era poca luce, solo una misera candela sopra un tavolo di noce. In piedi davanti a lui si trovava la signora Beatrice, moglie del mugnaio Lapo Belli il quale, esattamente due ore prima, era caduto dentro la macina. La donna stava ridendo e ballando di fronte a una specie di polpetta gigante. Cantava: «Trullallero trallallà, ecco qua la felicità!».