Un po’ imbarazzato sono andato via senza salutare.
Lapo il cavallo mi ha poi portato al famoso forno di via degli Strozzi, dove il titolare, Lapo Latini, ha dato in escandescenze: «Mica so’ gonzo, il mi’ pane l’è bianco! Mica che ci metto la crusca come fa quel bischero del mi’ rivale Lapo Franzi!» e urlando mi ha cacciato a colpi di pani ancora da infornare. «Fuori di qui! Mica so’ gonzo, io so’ ganzo! Siete voi che pensate d’esser ganzo, e siete invece gonzo!»
Salgo sulla carrozzella e Lapo il fiaccheraio ha detto: «Io scendo qui dove abito, vado a schiacciare un pisolino di quattr’ore, ma vi affido a Lapo il mi’ cavallo, che ne sa una più del diavolo!».
Il vecchio cavallo sembrava più felice senza il padrone e mi ha portato su fino a Fiesole a un trotto inaspettato. Lì ho raggiunto la casa della signora Francesca Farina in Crusca, moglie del medico condotto Lapo Crusca. Lapo, con una scoreggia lievissima e con la coda, ha indicato il portone; ho suonato e mi ha aperto la signora Francesca, una maschera di marmo con in mano una forchetta di plastica.
«Lo sapete anche voi, vero? Quel figlio di troia del mi’ marito, dopo quarant’anni di matrimonio, l’è scappato di notte con quel bucaiolo di Lapo Cioni! Pare che siano in una pensione di Prato chiamata Da Lapo e che mangino tutte le sere baciandosi sulla bocca in pubblico in una bettola vicino al Battistero, La buca di Lapo. Mi date un passaggio? Vo’ ad ammazzarli a forchettate!»
Sono scappato di gran carriera. Al galoppo più sfrenato Lapo il cavallo mi ha portato giù in città, in via degli Archi. Qui ha fatto una scoreggia impercettibile in segno di saluto e s’è involato nitrendo come uno stallone arabo. Non ha voluto soldi.
Il portone di via degli Archi numero 12 era aperto.
«Permesso? Permesso, c’è nessuno?»
Silenzio. Solo un odore eccitante di ribollita.
«C’è nessuno?»
In alto si è aperta una finestrella di quell’ androne buio, e una voce: «So’ Lapo il portinaio e so chi cercate! Colaggiù, in mezzo al pavimento… L’è sotto a quella botola di legno. Addio!».
Alzo la botola con molta prudenza e sono quasi respinto da una ventata di cavolo cappuccio. Poi, dal fondo, una voce: «Scendete con creanza per quella scaletta d’ebano. So chi siete e che volete. Avanzate verso il chiaror di codesto lume!».
Arrivo in una sala circolare. In un angolo il fornello dove ribolliva la ribollita e, al centro, un tavolo tondo zeppo di libri: quattro copie dell’ Inferno, due del Purgatorio, il Canzoniere di Petrarca, il Decamerone di Boccaccio, due copie dell’ Orlando Furioso e due riviste pornografiche: Orgasmo solitario e Il manuale del piccolo masturbatore fiorentino. Chino sul tavolo c’era un giovanotto di circa ottantacinque anni, completamente nudo, però con degli stivali da cavallerizzo. Ha detto: «So’ Lapo Lapi, il direttor de’ direttori di codesta Accademia. Accomodatevi».
«Dove?» ho domandato perplesso. «Non vedo sedie.»
«Che domanda da bischero! Sempre la solita mania delle sedie. Assestatevi sul pavimento. Allora voi siete qua per conferir meco? Ch’ore fa l’ orologio che vi guarnisce lo polso?»
«Le 12.30.»
«Chiusa! L’Accademia l’è chiusa! S’apre codesto meriggio alle tre. Io vo’ in pausa mensa. Potete andare, o restare se volete.»
Con un mestolo s’è versato nel piatto la ribollita e ha cominciato a succhiare come un maiale.
«È buona?» ho domandato timidamente.
«Abbiate creanza, sono in pausa! Rifatemi la domanda dalle tre in poi.»
Succhiava la zuppa mugolando di goduria.
«Mmm! Quanto l’è bona! Mmmmmm, ma l’è proprio bona, bona, bona!» Ha alzato il piatto, lo ha inclinato, l’ ha finita fragorosamente e ha leccato il fondo ansimando. Poi ha fatto un rutto fuori ordinanza, ha buttato la testa sul tavolo e ha cominciato a ronfare.
Aveva una qualità di sonno oscena: urlava, fischiava e parlava fitto fitto: «Come la va sor Durante Alighieri? Vi posso chiamare Dante? E madonna Beatrice Portinari la va sempre a giro sentendosi laudare?».
Quell’ inferno durò due ore filate.
Alle tre in punto il direttor de’ direttori, Lapo Lapi, con un rantolo terrificante si è svegliato, poi si è inclinato leggermente rimanendo in attesa. Niente di niente.
«L’è andata male!» ha gridato. «Speravo in una scoreggia a soffione, ma temo il peggio. E ora si cominci: che desidera, messere? Fermo! Non parlate. Io fo le domande, ma preferisco darmi anche le risposte. Cominciamo col dire che per tutto il Medioevo la lingua ufficiale l’ era la lingua della Chiesa, cioè il latino, che veniva usata anche da li notari nell’ atti ufficiali.» Io prendevo appunti, concentrato. «Il popolino poco capiva di quella lingua arcaica e s’ha notizia, per esempio, di un calderaio, chiamato non si sa ancora perché Lapo il calderaio, caduto per ignoranza nella trappola mortale di sposare un cardatore di lana suo coetaneo, di nome Lapo! Per la Chiesa il matrimonio l’è indissolubile sicché i due Lapi si coricavano insieme. E ora mi faccio la domanda. Zitto per favore, mi raccomando, mi rispondo io. Chi l’è stato, e come, e quando e perché e per come, a buttar all’ ortiche la lingua della Chiesa, usando il “volgare” e chiamandolo il “Dolce stil novo”?
«Zitto, che mi rispondo! Un momento che mi concentro… Non voglio aiutini, eh! Allora… erano in tre: Lapo Gianni, Guido Cavalcanti e ser Durante Alighieri, che c’ha avuto poi dei guai perché l’ era ghibellino.
«E ora passo al domandone, scelgo una di tre buste, l’ apro e in tre giri di clessidra mi devo rispondere…»
Ma in quel momento la candela, ridotta ormai a un lumicino, si era spenta. Nel buio totale Lapo Lapi, l’ ultimo membro fossile della gloriosa istituzione, ha cominciato a piagnucolare: «S’è spenta l’ ultima luce, non ci son più fondi e qui finisce la storia dell’ Accademia della Crusca. Addio».
Nel frattempo io ho approfittato dell’ oscurità per salire come un topo sulla scaletta e svignarmela alla luce. Prima di chiudere la botola, però, ho sentito la voce del direttor de’ direttori, laggiù, ormai lontana: «Questa volta ce la fo, sento che ce la fo!». Una pausa piena di speranza e poi: «Nooo! Madonna sul ciuco! Non l’ era il solito soffione! Che gran brutto finale!».
Ho chiuso la botola e, con tristezza, ho intuito che la lingua italiana era finita in un mare di merda.
Son tornato “a riveder le stelle…”. S’è aperta una finestrella e il portinaio mi fa: «Erano anni che non si vedeva nessuno. L’ultima volta l’è stato un certo don Lisander Manzoni, uno della Lega Nord, che uscendo saltellava e cantava: “Mi sunt vegnù a sciacqua i pann in Arno…”».
L’Associazione Dante Alighieri
Sono tornato a Roma in silenzio. Ho viaggiato sul velocissimo Frecciarossa perché avevo fretta e m’ero ripromesso di chiedere al ministero degli Esteri dove trovare la sede centrale della Dante Alighieri, che promuove la diffusione della lingua italiana nel mondo.
Il super rapido mi ha portato a Roma in sei ore: era partito con un’ora di ritardo, poi ha avuto un deragliamento insignificante a Nonantola e, al passaggio a livello custodito di Torontola, ha decimato un gregge di pecore facendo sparire due pastori. In serata, prima di entrare alla stazione Termini, sono stati staccati furtivamente dal muso del treno dai due macchinisti.
Prendo un taxi, il tassista puzzava come una capra marcia. Io, per sembrare simpatico: «Come va?»; e la capra marcia: «Ma li mortacci tua de li mortanguerieri… C’ho ‘n abbiocco da paura! A morè, ho fatto ‘na stronzata: prima de prenne servizio me so’ bevuto ‘na cofana de rigatoni co’ ‘a pajata…».