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Un test associativo, con un’adeguata serie di parole, avrebbe colto lo scopo. Ma ciò implicava la collaborazione dell’altro, e Quentin non era ubriaco fino a questo punto!

Non era possibile valutar niente, sapendo da Quentin ciò che lui poteva vedere… poiché non era necessario che il suo cervello si trovasse vicino a uno dei suoi occhi. Nel transplant, però, doveva esserci un’effettiva, intrinseca percezione del posto in cui in realtà si trovava: la conoscenza che lui - cieco, sordo e muto salvo per i suoi remoti estensori sensoriali — aveva una ben precisa localizzazione. E in che modo, se non attraverso domande non troppo dirette, era possibile fare in modo che Quentin desse la risposta giusta?

Era impossibile, pensò Talman, con una sorta di rabbiosa frustrazione. La rabbia crebbe in lui, gli riempì il viso di sudore, destando in lui un odio ottuso e tenace per Quentin. Tutto questo era colpa di Quentin, il fatto che lui, Talman, fosse imprigionato qui, in quell’odiosa tuta spaziale e in quella immensa trappola mortale che era la nave. Colpa di una macchina…

Sarebbe dipeso, naturalmente, da quanto Quentin era ubriaco. Diede un’occhiata a Fern, interrogò l’uomo con lo sguardo, e in risposta l’uomo girò una manopola, e annuì.

«Dannazione a te», disse Quentin con un bisbiglio.

«Sciocchezze», replicò Talman. «Non hai suggerito, poco fa, di non aver più l’istinto di conservazione?»

«lo… non ho…»

«È vero, no?»

«No», disse Quentin ad alta voce.

«Dimentichi che sono uno psicologo, Quent. Avrei già dovuto vederlo prima. Il libro era spalancato, pronto a farsi leggere… perfino prima che ti incontrassi di nuovo. Quando ho visto Linda».

«Lascia stare Linda!»

Talman ebbe una fugace, nauseante immagine del cervello ebbro e torturato, nascosto in qualche punto, su quelle pareti, un incubo surrealista. «Certo», disse. «Sei tu che non vuoi pensare a lei».

«Stai zitto».

«Non vuoi neppure pensare a te stesso, vero?»

«Cosa stai cercando di fare, Van? Vuoi farmi impazzire?»

«No», replicò Van. «Semplicemente, sono stufo, nauseato e disgustato da tutta questa faccenda. Fingere di essere Bart Quentin, di essere ancora umano… che si debba trattare con te alla pari».

«Non ci saranno trattative…»

«Non è questo che intendevo, e tu lo sai. Mi sono appena reso conto di ciò che sei». Lasciò le parole sospese a mezz’aria. S’immaginò di udire il pesante respiro di Quentin, anche se sapeva che era soltanto un’illusione.

«Per favore, stai zitto, Van», disse Quentin.

«Chi mi sta chiedendo di star zitto?»

«Io».

«Io, chi?»

La nave ebbe un sobbalzo. Talman quasi perse l’equilibrio. La corda legata al pilastro lo salvò. Scoppiò a ridere.

«Mi dispiacerebbe per te, Quentin, se fossi… te. Ma non lo sei».

«Non mi lascio intrappolare dai tuoi espedienti».

«Potrebbe essere un espediente, ma è anche la verità. E te lo sei chiesto tu stesso. Di ciò sono assolutamente certo».

«Chiesto cosa?»

«Non sei più umano», spiegò Talman, con voce soave. «Sei un oggetto, una macchina. Un congegno. Un pezzo di carne grigia e spugnosa chiuso in una scatola. Credi davvero che potrei abituarmi a te… adesso? Che potrei identificarti col vecchio Quent? Tu che non hai neppure un viso?»

L’altoparlante produsse dei rumori. Parevano meccanici. Poi… «Stai zitto», tornò a dire Quentin, quasi implorante. «So cosa stai cercando di fare».

«E non vuoi guardare in faccia il problema. Soltanto… dovrai guardarlo in faccia, prima o poi, sia che tu ci uccida adesso oppure no. Questa faccenda é… un incidente. Ma i pensieri nel tuo cervello continueranno a crescere, a crescere… e tu continuerai a cambiare, e a cambiare. Sei già cambiato parecchio».

«Sei pazzo», disse Quentin. «Non sono… un mostro».

«È quello che tu speri, eh? Guarda alla cosa con logica. Finora non hai osato farlo, vero?» Talman alzò la mano guantata e cominciò ad enumerare gli argomenti sulla punta delle sue dita. «Stai cercando disperatamente di mantener la presa su qualcosa che ti sta sfuggendo via: l’umanità, l’eredità per la quale eri nato. Ti aggrappi ai simboli, sperando che significhino realta. Perché fingi di mangiare? Perché insisti a farti servire il brandy da un bicchiere? Lo sai che andrebbe altrettanto bene se te lo schizzassero dentro prelevandolo da un bidone di benzina».

«No. No! È una questione d’estetica…»

«Fesserie. Assisti agli spettacoli televisivi. Leggi. Fingi di essere umano al punto di disegnare vignette. Tutte queste finzioni sono soltanto un disperato, impotente aggrapparsi a qualcosa che ti ha già lasciato. Perche senti il bisogno di far bisboccia? Sei disadattato, perché fingi di essere ancora umano, e non lo sei, non più».

«Sono… be’, qualcosa di meglio…».

«Forse… se tu fossi nato macchina. Ma eri umano. Avevi un corpo umano. Avevi occhi, e capelli, e labbra. Questo Linda senz’altro lo ricorda, Quent. Avresti dovuto insistere per il divorzio. Senti, se l’esplosione ti avesse semplicemente mutilato, lei avrebbe potuto prendersi cura di te. Avresti avuto bisogno di lei. Così come stanno le cose, sei un’unità autosufficiente, chiusa in un perfetto involucro. Lei sa fingere bene, lo ammetto. Cerca di non pensare a te come ad un elicottero supercarrozzato… un marchingegno. Un grumo di tessuto cellulare umidiccio. Dev’essere dura per lei. Si ricorda di te com’eri un tempo».

«Mi ama».

«Ha pietà di te», disse Talman, implacabile.

Nella ronzante immobilità la spia rossa strisciava sul globo. Fern si umettò le labbra, facendovi scorrer sopra la lingua in cerchio. Dalquist se ne stava a osservare in silenzio. I suoi occhi erano due fessure sottili.

«Già», disse Talman, «guarda in faccia la cosa. E pensa al futuro. Ci sono compensazioni. Ti senti talmente eccitato quando metti in moto i tuoi ingranaggi, che alla fine perfino dimenticherai che eri umano. Allora sarai più felice, giacché non puoi tenertici aggrappato, Quent. Ti sfugge via. Puoi continuare a fingere per un po’, ma verrà il giorno in cui non avrà più importanza. Sarai pienamente soddisfatto d’essere un meccanismo. Vedrai la bellezza in una macchina, e non in Linda. Forse è già accaduto. Forse Linda sa, che è accaduto. Tu non sei obbligato ad essere onesto con te stesso, non ancora, sai. Tu sei immortale. Ma io non accetterei in dono quel tipo d’immortalità».

«Van…».

«Io sono ancora Van, tu sei una macchina. Procedi pure e uccidici, se vuoi. E se puoi. Poi, torna sulla Terra, e quando vedrai di nuovo Linda, guarda il suo viso. Guardala quando lei non sa che la stai osservando. Puoi farlo facilmente. Infila una cellula fotoelettrica in una lampada, o qualcosa di simile».

«Van… Van!»

Talman lasciò ricadere le mani sui fianchi. «Va bene. Dove sei?»

Il silenzio crebbe, mentre una domanda inaudibile risuonava in quella gialla vastità. La domanda che, forse, aleggiava nella mente di ogni transplant. La domanda… qual era il prezzo da pagare?

Quale prezzo?

La solitudine più totale, la nauseante consapevolezza che i vecchi legami si spezzavano uno ad uno, che al posto di un’umanità calda e viva sarebbe subentrato… un mostro di metallo?

Sì, se l’era chiesto… questo transplant che era stato Bart Quentin. Se lo era chiesto, mentre le macchine enormi ed orgogliose che erano il suo corpo si preparavano a scattare di vita pulsante.

Sto cambiando? Sono ancora Bart Quentin?

Oppure loro… gli umani… mi guardano come… Cosa prova davvero Linda per me, adesso?

Sono un…

Sono un oggetto?

«Sali sulla piattaforma», disse Quentin. La sua voce era stranamente smorta.