Talman fece un rapido gesto. Fern e Dalquist scattarono. Ognuno dei due prese a salire una delle scalette ai lati opposti della sala, ma con cautela, allacciando prudentemente il cavo alla ringhiera.
«Dov’è?» domandò Talman, gentilmente.
«La parete sud… Usate il globo azzurro per orientarvi. Potrete raggiungermi…». La voce venne meno.
«Sì?».
Silenzio. Fern chiese, dall’alto: «È svenuto?».
«Quent!».
«Sì… all’incirca al centro della piattaforma. Ve lo dirò quando sarete arrivati».
«Calma», disse Fern, ammonendo Dalquist. Legò l’estremità del suo cavo alla ringhiera, là sopra, e avanzò piano, scrutando attentamente ogni punto della parete.
Talman si ripulì con un braccio la visiera appannata. Il sudore gli scorreva giù per il viso e i fianchi. Quella fosca luminosità giallastra, l’immobilità ronzante di macchine che avrebbero dovuto produrre un rombo di tuono, gli stuzzicavano i nervi fino a un’intensità insopportabile.
«Qui?» gridò Fern.
«Dov’è, Quent?» chiese Talman. «Dove ti trovi?».
«Van», disse Quentin, con un’orribile, profonda angoscia nella voce, «non puoi pensare davvero a ciò che hai detto. Non puoi. Questo è… devo saperlo. Sto pensando a Linda».
Talman rabbrividì. S’inumidì le labbra.
«Sei una macchina, Quent», disse, con calma. «Sei un meccanismo. Lo sai che non avrei mai tentato d’ucciderti se tu fossi stato ancora Bart Quentin».
E poi, con sconvolgente repentinità, Quentin scoppiò a ridere.
«Ecco che arriva, Fern!» urlò, e gli echi rimbombarono e si scontrarono, spaventosi, su ogni superficie metallica dell’immensa sala. Fern artigliò la ringhiera.
Quello fu un errore fatale. Il cavo che lo teneva legato alla ringhiera si rivelò una trappola… poiché non vide in tempo il pericolo per sganciarsi.
La nave dette un balzo.
Era stato calcolato con meravigliosa precisione. Fern venne sbalzato verso la parete e arrestato dal cavo. Nel medesimo istante il grande globo azzurro descrisse un arco come un pendolo gigantesco, come un enorme schiacciamosche. L’urto fracassò il casco di Fern.
Lo schianto fu assordante in quello spazio chiuso.
Talman si afferrò a un pilastro e tenne gli occhi fissi sul globo azzurro, il quale continuò ad oscillare avanti e indietro diminuendo l’arco man mano l’attrito dell’atmosfera frenava la velocità. C’era del liquido che sgocciolava da esso.
Vide il casco di Dalquist comparire sopra la ringhiera. L’uomo gridò: «Fern!»
Non ci fu risposta.
«Fern! Talman!»
«Sono qui», disse Talman.
«Dove…» Dalquist girò la testa verso la parete. Urlò.
Un balbettio osceno gli sgorgò poi dalla bocca. Afferrò il fulminatore che portava appeso alla cintura, fra gli altri attrezzi.
«Dalquist!» urlò Talman. «Apetta!»
Dalquist non lo senti.
«Farò a pezzi la nave», urlò ancora. «Io…».
Talman sfoderò il suo fulminatore, appoggiò la canna al pilastro e mirò alla testa di Dalquist. Vide il corpo piegarsi sopra la ringhiera, cader giù e schiantarsi sulle piastre del pavimento. Poi rotolò bocconi, e giacque laggiù, producendo suoni nauseanti e penosi.
«Van» disse Quentin.
Talman non rispose.
«Van!»
«Sì?»
«Spegni l’irradiatore di frequenza».
Talman si alzò in piedi, raggiunse con passi incerti il congegno e strappò via i fili. Non si preoccupò di trovare un metodo più semplice.
Dopo un po’, la nave atterrò. La continua vibrazione si spense. Ora, l’oscura, gigantesca sala di comando pareva stranamente vuota.
«Ho aperto un boccaporto», annunciò Quentin. «Denver è circa cinquanta miglia a nord. C’è un autostrada a circa quattro miglia, nella stessa direzione».
Talman si alzò in piedi, guardandosi intorno. Il suo volto era sconvolto dall’emozione.
«Ci hai ingannati», borbottò. «Per tutto il tempo, stavi giocando con noi come il gatto col topo. La mia psicologia…».
«No», fece Quentin. «C’eri quasi riuscito».
«Cosa…».
«Tu non pensi a me come a un meccanismo, in realtà. Hai finto di farlo, ma una piccola questione di semantica mi ha salvato. Quando mi sono reso conto di ciò che avevi detto, sono rinsavito».
«Cosa avevi detto?»
«Già. Che non avresti mai cercato di uccidermi se fossi stato ancora Bart Quentin».
Talman si stava sfilando con faticosa lentezza la tuta spaziale. L’aria fresca e pulita della Terra aveva sostituito l’atmosfera velenosa della nave. Scrollò il capo, stordito.
«Non capisco».
La risata di Quentin echeggiò nella vasta sala, riempiendola di calde vibrazioni umane.
«Una macchina può essere fermata, o distrutta, Van», spiegò. «Ma non può essere… uccisa».
Talman non disse niente. Adesso si era del tutto liberato dell’ingombrante tuta, girandosi con fare esitante verso l’uscita.
Guardò dietro di sé.
«La porta è aperta», ripeté Quentin.
«Mi lasci andare?»
«A Quebec ti avevo detto che ti saresti dimenticato della nostra amicizia prima di me. Meglio far presto, Van, finché c’è ancora tempo. È probabile che Denver abbia già mandato fuori gli elicotteri».
Talman esplorò con una lunga occhiata interrogativa la vasta sala. Da qualche parte, mimetizzato in modo perfetto fra quelle poderose macchine, c’era un piccolo cilindro di metallo nel suo ricettacolo segreto.
Bart Quentin…
Aveva la gola secca. Deglutì, aprì la bocca, e tornò a chiuderla.
Girò sui tacchi e usci. Il rumore ovattato dei suoi passi si spense in distanza.
Solo, nella nave silenziosa, Bart Quentin aspettava i tecnici che avrebbero nuovamente messo a punto il suo corpo per il volo fino a Callisto.