«Non…»
Linda annui.
Cenarono insieme, tutti e tre. Talman scrutò il cilindro di settanta centimetri per settanta, davanti a lui, adagiato sul tavolo, e cercò di leggervi la personalità e l’intelligenza attraverso le sue doppie lenti. Non poté fare a meno d’immaginarsi Linda nelle vesti d’una sacerdotessa al servizio d’una qualche immagine di divinità aliena, e l’idea lo inquietò. Adesso Linda stava infilando forchettate di gamberetti in salsa in un piccolo scomparto metallico, tirandoli fuori col cucchiaio quando il segnalatore gliel’indicava.
Talman si era aspettato una voce piatta e senza toni, ma il sonovox dava profondità e timbro, tutte le volte che Quentin parlava.
«Quei gamberetti… puoi mangiarli senz’altro, Van. È soltanto l’abitudine che mi fa buttar fuori il cibo dopo averlo avuto per un po’ nell’apposito scomparto. Certo, l’assaggio… ma non ho saliva».
«L’as… l’assaggi».
Quentin scoppiò a ridere. «Senti, Van. Non cercar di fingere che tutto questo è per te del tutto naturale. Dovrai abituartici».
«A me ci è voluto parecchio tempo», interloquì Linda. «Ma dopo un po’ mi sono scoperta a pensare che era proprio il genere di sciocchezza che Bart aveva sempre avuto l’abitudine di fare. Ricordi quella volta che indossasti quell’armatura per la riunione del consiglio d’amministrazione a Chicago?»
«Be’, volevo dimostrare qualcosa», disse Quentin. «Mi sono dimenticato cos’era, ma… stavamo parlando del sapore. Posso gustare questi gamberetti, Van. Certe sfumature mi mancano, è vero. Le sensazioni più delicate per me sono perdute. Ma posso gustare qualcosa di più del dolce, dell’amaro, del salato e dell’acido. Le macchine erano in grado di assaporare diversi gusti già anni or sono».
«Ma non c’è digestione…»
«Ma neanche mal di pancia. Ciò che perdo in raffinatezza del gusto lo guadagno con la libertà dai disordini gastrointestinali».
«E neanche rutti più», commentò Linda. «Grazie a Dio».
«E posso anche parlare a bocca piena», aggiunse Quentin. «Ma non sono il cervello col corpo da supermacchina al quale tu stai pensando dentro di te, vecchio mio. Io non sputo fuori raggi della morte».
Talman sogghignò, a disagio: «Stavo pensando questo?»
«Scommeto di si. Ma…» il timbro della sua voce cambiò. «Non sono super. Sono del tutto umano, dentro, e non credere che a volte non senta la mancanza dei vecchi tempi. Starmene disteso sulla spiaggia a sentire il sole sulla mia pelle… piccole cose del genere. Ballare al ritmo della musica, e…»
«Tesoro», disse Linda.
La voce tornò a cambiare. «Già. Sono quelle piccole cose banali che rendono completa una vita. Ma adesso ho delle compensazioni… fattori paralleli. Reazioni del tutto impossibili da descrivere, poiché sono… diciamo… vibrazioni elettroniche invece dei familiari impulsi neurali. Ho i sensi, ma attraverso organi meccanici. E quando i loro impulsi raggiungono il mio cervello, vengono automaticamente tradotti nei simboli familiari. Oppure…» Esitò. «Non proprio così, adesso».
Linda infilò un pezzo di pesce guarnito nel compartimento del cibo. «Ci diamo arie, vero?»
«No, in verità qualcosa è cambiato… ma non mi sto dando arie, amor mio. È una semplice constatazione. Capisci, Van: quando mi trovai ad essere un transplant, all’inizio, non avevo nessun punto di riferimento se non quelli, convenzionali, che avevo sempre avuto. Ma erano adatti soltanto a un corpo umano. Quando avvertivo l’impulso proveniente da una macchina scavatrice, lo sentivo istintivamente come se avessi il mio piede sull’acceleratore. Adesso, quei vecchi simboli stanno svanendo. Io sento, adesso… in modo più diretto, senza dover tradurre gli impulsi nelle immagini d’un tempo».
«Dovrebbe essere più veloce», commentò Talman.
«Lo è. Non devo più pensare al valore di “pi greco” quando ricevo un segnale “pi greco”. Non devo più scomporre l’equazione nei suoi fattori e risolverla. Comincio a percepire l’equazione, e i suoi valori, in blocco».
«Una sintesi completa con la macchina?».
«Ma non sono un robot. Ciò non influenza l’identità, la quintessenza di ciò che è Bart Quentin». Vi fu un breve silenzio, e Talman colse una rapida occhiata di Linda al cilindro. Poi, Quentin continuò sullo stesso tono: «Ricavo una grande soddisfazione, quando risolvo dei problemi. Per me, è sempre stato così. E adesso, non devo neppure servirmi dell’intermediario della carta e penna: svolgo tutto dentro di me, dall’inizio alla fine. Sono io che colgo, subito, ogni possibile applicazione, e… Van, sono io la macchina!»
«La macchina?»
«Non hai mai notato, quando guidi, o piloti, fino a qual punto finisci per identificarti con la macchina? È un’estensione di te stesso. Io vado un passo più in là. E ne provo una grande soddisfazione. Supponi di poter spingere l’empatia al limite estremo e essere uno dei tuoi pazienti, mentre risolvi il suo problema? È, sì… un’estasi».
Talman fissò Linda che stava versando del Sauterne in una diversa cavità del cilindro. «Ti prendi ancora delle ubriacature?» gli chiese.
Linda rise: «Non di alcool… ma Bart si ubriaca lo stesso, se è per questo!»
«E come?»
«Cerca d’indovinarlo», disse Quentin, compiaciuto.
«L’alcool viene assorbito dal sangue, raggiungendo così il cervello… l’equivalente d’una endovenosa, forse?»
«Preferirei mettere il veleno del cobra nel mio sistema circolatorio», replicò il transplant. «Il mio equilibrio metabolico è troppo delicato, è organizzato in modo troppo perfetto per sconvolgerlo introducendo sostanze estranee. No, uso stimoli elettrici… una corrente indotta ad alta frequenza che mi fa volare ai sette cieli».
Talman lo fissò: «Ed è un sostituto?»
«Lo è. Il fumo e le bevande sono degli irritanti, Van. Lo è anche il pensare, per questo! Quando sento il bisogno fisico di far bisboccia, ho un congegno che mi fornisce un’irritazione stimolante… e sono pronto a scommettere che ci ricavo una scossa maggiore di quella che tu proveresti da una dose di mescalina».
«Sta citando Housman», disse Linda. «E, lo sai?, fa le imitazioni degli animali. Col suo controllo tonale, Bart è una meraviglia». Si alzò in piedi. «Se volete scusarmi per un po’, malgrado abbia una cucina automatica, ho sempre dei pulsanti da pigiare».
«Posso aiutarti?» si offri Talman.
«Grazie, no. Rimani qui con Bart. Vuoi che t’innesti le braccia, caro?»
«No», rispose Quentin. «Van può occuparsi della mia dieta liquida. E… affretta i tempi, Linda. Summers ed io dobbiamo tornar subito al lavoro».
«L’astronave è pronta?»
«Quasi».
Linda si fermò un attimo sulla soglia, mordendosi le labbra. «Non mi abituerò mai all’idea che tu sia in grado di manovrare una nave spaziale tutto da solo, soprattutto quella».
«Anche se è destinata a quest’unica missione, ce la farò lo stesso ad arrivare su Callisto».
«Be’… c’è pur sempre un equipaggio, sia pur minimo, no?»
«C’è», confermò Quentin, «ma non serve. Sono le compagnie d’assicurazione che esigono un equipaggio d’emergenza. Summers ha fatto un ottimo lavoro, riuscendo ad attrezzare la nave in sole sei settimane».
«Con qualche gancio e un po’ di gomma americana», osservò Linda. «Spero soltanto che non si sfasci tutto a mezza strada». Uscì, mentre Quentin scoppiava a ridere. Poi ci fu un breve silenzio. E fu allora che, mai come prima, Talman sentì che il suo amico era… si, era cambiato. Poiché si accorse che Quentin lo fissava… e Quentin non era là.