«Brandy, Van», disse la voce. «Versane un po’ nel mio scomparto».
Talman face per obbedire, ma Quentin lo fermò. «Non dalla bottiglia. È passato un bel po’ da quando ho mescolato rum e coca nella mia bocca. Usa l’inalatore. Ecco… così. Bevi anche tu e dimmi come ti senti».
«A proposito di che…?»
«Non lo sai?»
Talman si avvicinò alla finestra e restò lì a fissare il riflesso di tante luci sulle acque del San Lorenzo. «Sette anni, Quent. È difficile abituarsi a te, in questa… forma».
«Non ho perso niente».
«Neppure Linda», disse Talman. «Sei fortunato».
Quentin replicò con calma: «Mi è rimasta vicina. L’incidente, cinque anni fa, mi distrusse. Mi ero lasciato coinvolgere nella ricerca atomica, e c’erano rischi che bisognava correre. Fui straziato, maciullato dall’esplosione. Non credere che Linda ed io non l’avessimo previsto. Conoscevamo i rischi di quel lavoro».
«E tuttavia, tu…»
«Pensavamo che il nostro matrimonio sarebbe durato, anche se… Ma dopo, mi trovai quasi ad insistere perché divorziasse. Ma Linda mi convinse che potevamo ancora provarci. E l’abbiamo fatto».
Talman annui: «Direi di sì».
«Ed è stato questo», proseguì Quentin, con voce sommessa, «che mi ha consentito di andare avanti. Tu sai cosa provavo per Linda. È sempre stata un’equazione pressoché perfetta. Anche se i fattori sono cambiati, abbiamo saputo adattarci». L’improvvisa risata di Quentin fece voltare di scatto Talman. «Non sono un mostro, Van. Cerca di vincere quell’idea!»
«Non l’ho mai pensato», replicò Talman. «Tu sei…»
«Cosa?»
Di nuovo silenzio. Quentin grugnì.
«In cinque anni ho imparato a osservare come la gente reagisce in mia presenza. Dammi un altro po’ di brandy. Immagino ancora di gustarlo col mio palato. È strano come queste associazioni mentali persistano».
Talman versò dell’altro brandy nell’inalatore. «Così, sei convinto di non essere cambiato, se non nell’aspetto fisico».
«E tu m’immagini come un cervello nudo in un cilindro di metallo. Non come il tizio con cui avevi l’abitudine di ubriacarti sulla Terza Strada. Oh, sono cambiato… certo. Ma è un cambiamento che rientra nella normalità. Non c’è niente di alienante nel possedere gambe e braccia metalliche. È soltanto un passo più in là che guidare un’auto o comandare una qualunque macchina. Se fossi davvero quel tipo di supercongegno che tu ti immagini nel tuo subconscio, sarei completamente chiuso in me stesso e passerei la mia intera vita a elaborare e risolvere equazioni cosmiche». Quentin se ne uscì in un’esclamazione volgare. «E se lo facessi, impazzirei. Giacché non sono un superuomo. Sono un tizio normale, un fisico, e ho dovuto abituarmi a un nuovo corpo. Che, naturalmente, ha i suoi inconvenienti».
«Quali, per esempio?»
«I sensi. O la mancanza di essi. Ho contribuito a mettere a punto un bel po’ di apparecchiature compensatorie. Leggo romanzi d’avventure, mi ubriaco di stimolazioni elettriche, e assaporo i cibi, anche se non posso mangiarli. Guardo i programmi televisivi. Cerco per quanto possibile di conservare l’equivalente di tutti i piaceri umani puramente sensori. Serve a creare un equilibrio che è senz’altro indispensabile».
«Parrebbe. Ma funziona?»
«Senti un po’. Possiedo occhi d’una straordinaria sensibilità anche alle minime sfumature cromatiche. Ho delle braccia accessorie che sono delicate al punto da consentirmi di manipolare oggetti di dimensioni microscopiche. Posso disegnare e… sotto pseudonimo, sono un vignettista molto popolare. Lo faccio come attività collaterale. Perché il mio vero lavoro è ancora la fisica. È tuttora un ottimo lavoro. Conosci la sensazione di puro piacere che provi quando hai risolto un problema, di geometria, elettronica o psicologia… un problema, insomma? Adesso risolvo problemi infinitamente più complicati, che oltre ai calcoli in sé esigono reazioni d’una frazione di secondo. Come ad esempio, manovrare da solo una nave spaziale. Altro brandy, per favore. Evapora troppo in fretta, al calore di questa stanza».
«Sei ancora Bart Quentin», dichiarò Talman, «ma sono più convinto di questo quando tengo gli occhi chiusi. Manovrare una nave spaziale…»
«Non ho perso niente di umano», insisté Quentin. «Le emozioni fondamentali non sono cambiate. Non… non è proprio piacevole, per me, che tu te ne stia lì a guardarmi con autentico orrore, ma me ne faccio una ragione. Siamo stati amici per molto tempo, Van. Potresti dimenticartene tu, per primo, e non io».
Talman avvertì all’improvviso una stretta allo stomaco. Ma, nonostante le parole di Quentin, era convinto di avere ormai trovato buona parte delle risposte alle domande per cui era venuto a Quebec. Diventare un transplant non conferiva nessun potere anormale… non c’erano funzioni telepatiche.
Ma c’erano altre domande da fare. Sì, certo.
Versò dell’altro brandy e sorrise al cilindro che luccicava sull’altro lato del tavolo, davanti a lui. Sentiva Linda cantare sommessa in cucina.
La nave spaziale non aveva nessun nome, e per due ragioni. Una, perché avrebbe fatto soltanto quest’unico viaggio a Callisto; l’altra era più strana. Sostanzialmente, non era una nave che trasportava un carico, ma il carico stesso era la nave.
Le centrali atomiche sono delle dinamo che, per quanto grosse, possono essere smontate e imballate pezzo su pezzo e distribuite su dei camion o dei vagoni ferroviari. Sono monoblocchi ciclopici, voluminosi e massicci. Ci vogliono due anni per costruire un generatore atomico, e poi dev’essere portato al punto critico sulla Terra; negli enormi impianti standardizzati di controllo che coprono sette contee della Pennsylvania. Il Dipartimento Pesi e Misure ed Energia possiede una sbarra di metallo in una bacheca di vetro a temperatura rigorosamente costante a Washington: è il metro-standard. Allo stesso modo, in Pennsylvania, c’è, protetto da eccezionali misure di sicurezza, l’unico generatore-standard d’energia atomica di tutto l’intero sistema solare.
Il combustibile nucleare doveva obbedire a un solo requisito: esser filtrato attraverso una griglia metallica dalle maglie del diametro d’un paio di centimetri: una misura arbitraria, che contribuiva, comunque, a dare un minimo di uniformità ai carburanti. Per il resto, qualunque sostanza andava bene per produrre energia atomica.
Poche persone, comunque, accettavano di lavorare con l’energia atomica, qualcosa di troppo violento e pericoloso. I tecnici vi lavoravano a rotazione, per turni brevissimi. E anche così, soltanto la garanzia dell’immortalità sotto forma di transplant impediva che le neurosi sfociassero in aperta pazzia.
La centrale destinata a Callisto era troppo grossa per essere caricata anche nelle navi più grandi di qualunque linea commerciale, ma doveva a tutti i costi esser portata a destinazione. Così, i tecnici avevano costruito una nave intorno alla centrale. Non era proprio un lavoro raffazzonato alla bell’e meglio, ma certo il risultato era insolito. Il profilo era parecchio diverso da quello di ogni altra nave, e ogni esigenza particolare — e se ne erano presentate molte — era stata affrontata e risolta con parecchia ingegnosità, magari in modo tutt’altro che ortodosso. Dal momento che il completo controllo sarebbe stato affidato al transplant Quentin, non si era posta granché cura per gli alloggi del piccolo equipaggio di emergenza. Questi uomini non avrebbero affatto dovuto aggirarsi per l’intera nave, a meno che un guasto non l’avesse reso necessario, e un guasto era quasi impossibile. In pratica il vascello era un’unica entità vivente… ma non del tutto.
Il transplant aveva ogni tipo d’estensioni, collegate ad ogni singolo apparato della grande nave, nelle sue diverse sezioni, per tutte le più svariate funzioni. Gli erano stati staccati tutti gli apparati sensori, tranne la vista e l’udito, poiché Quentin, in quel viaggio, sarebbe stato soltanto il controllo propulsivo della nave… una sorta di superpilota per una nave d’eccezione. Il cilindro col cervello fu portato a bordo da Summers il quale lo inserì… da qualche parte! Quando ebbe finito di collegarlo, la costruzione della nave poté dirsi conclusa.