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Quentin rispose soltanto: «No».

Per qualche minuto vi fu silenzio. Talman stava guardando Fern che, srotolando con estrema cura la corda, stava esaminando il groviglio di cavi ai quali Cunningham era ancora appeso.

Quentin disse: «Non mi troverà mai, laggiù. Sono mimetizzato troppo bene».

«Ma impotente», si affrettò ad aggiungere Talman.

«Anche voi. Chiedilo a Fern. Se pasticcerete coi collegamenti sbagliati, finirete per distruggere la nave. Pensate al vostro problema, Stiamo tornando sulla Terra. Mi sto inserendo su una nuova rotta che ci terminerà a casa. Se vi arrendete subito…»

Brown si intromise: «Le vecchie leggi non sono mai state modificate. La punizione per la pirateria è sempre la morte».

«Da cent’anni non c’è più stato nessun atto di pirateria. Se un caso concreto finisse oggi in tribunale, potrebbe concludersi in modo del tutto diverso».

«La prigione? Il ricondizionamento?» chiese Talman. «Preferirei esser morto».

«Stiamo decelerando!» gridò Dalquist, stringedosi più saldamente al suo pilastro.

Guardando Brown, Talman pensò che l’uomo grasso doveva senz’altro aver capito ciò che lui aveva in mente di fare. Se le conoscenze tecniche fallivano, forse non sarebbe stato così per la psicologia. E Quentin, dopotutto, era un cervello umano.

Per prima cosa, cogli il soggetto impreparato.

«Quent».

Ma Quentin non rispose. Brown fece una smorfia e si voltò a guardare Fern. Il sudore colava giù per la faccia scura del fisico, mentre si concentrava sui circuiti, tracciando diagrammi sul blocco di appunti con la stilografica che portava appeso all’avambraccio.

Dopo un po’, Talman cominciò a provare una sensazione di vertigine. Scosse il capo, rendendosi conto che la nave aveva decelerato fin quasi a zero, e si afferrò più saldamente al pilastro più vicino. Fern imprecò. Cominciava ad aver qualche difficoltà a mantenere il punto d’appoggio.

Poco dopo lo perse del tutto, quando la nave entrò in caduta libera. Cinque figure in tuta spaziale si aggrapparono ad ogni possibile conveniente appiglio. Fern ringhiò: «Questo potrebbe essere un punto morto, ma non aiuta il transplant. Io non posso lavorare senza gravità, ma lui non può tornare sulla Terra senza accelerazione».

L’altoparlante annunciò: «Ho mandato un SOS».

Fern scoppiò a ridere: «Ho studiato la cosa con Cunningham… e tu hai parlato anche troppo con Talman. Con un radar per evitare i meteoriti, non hai bisogno d’una trasmittente. E infatti non ce l’hai». Diede una occhiata ai circuiti che aveva appena finito di esaminare. «Forse mi sto avvicinando troppo alla risposta giusta, eh? È per questo che…»

«Non ci sei neppure vicino», replicò Quentin.

«Ma ugualmente…» Fern si allontanò con un calcio dal pilastro, lasciando scorrere la corda dietro di sé. Fece un cappio intorno al suo polso sinistro e, fluttuando a mezz’aria, si mise a studiare un altro collegamento.

A Brown scivolò la mano sulla liscia superficie della colonna e si trovò a galleggiar libero come un pallone troppo gonfio. Talman si spinse con un calcio verso la piattaforma con la ringhiera. Afferrò la sbarra di metallo con le mani guantate e la scavalcò con una piroetta, come un acrobata, e guardò giù… anche se non era veramente giù… nella sala di comando.

«Credo che fareste meglio ad arrendervi», disse Quentin.

Brown stava fluttuando attraverso la sala per raggiungere Fern. «Mai», disse, e nel medesimo istante quattro G colpirono la nave con la violenza d’un maglio. Non era un’accelerazione in avanti, ma in un’altra direzione calcolata con cura. Fern la scampò, anche a costo di un polso mezzo slogato… ma la corda stretta intorno all’avambraccio lo salvò comunque da un tuffo fatale in mezzo ai fili non isolati.

Talman fu sbattuto giù sulla piattaforma. Poté vedere gli altri che precipitavano con violenza contro superfici dure. Tuttavia Brown non fu fermato dal pavimento metallico.

Si era trovato a galleggiare sopra il foro di alimentazione del combustibile quando l’accelerazione di quattro G era stata applicata di colpo.

Talman vide il suo corpo voluminoso scomparire alla vista dentro l’apertura. Si udì un rumore indescrivibile.

Dalquist, Fern e Cotton lottarono per tirarsi in piedi. Si avvicinarono cauti al foro e guardarono giù.

Talman gridò: «È…?»

Cotton aveva distolto lo sguardo. Dalquist restò dove si trovava, come affascinato pensò Talman, finché non vide le spalle dell’uomo scosse da conati di vomito. Fern sollevò lo sguardo verso la piattaforma.

«È passato attraverso lo schermo filtrante», disse. «È una rete metallica con le maglie larghe un paio di centimetri…»

«L’ha rotta passando?»

«No», replicò Fern, duro. «Non l’ha rotta. L’ha attraversata».

Quattro gravità e una caduta di venticinque metri assommano a qualcosa di terribile. Talman chiuse gli occhi e disse: «Quent!»

«Vi arrendete?»

Fern ringhiò: «Neanche per sogno! La nostra associazione non è così interdipendente. Possiamo farcela anche senza Brown».

Talman sedette sulla piattaforma, tenendosi stretto alla ringhiera, e lasciò che i suoi piedi penzolassero nel vuoto. Fissò il globo azzurro una dozzina di metri alla sua sinistra. Il punto rosso identificava che la nave era immobile.

«Credo che tu non sia più un essere umano, Quent» disse.

«Perché non uso un fulminatore? Adesso ho armi diverse con cui combattere, Van… e sto lottando per la mia vita».

«Possiamo sempre trattare».

Quentin prosegui: «Te l’ho detto, che ti saresti dimenticato della nostra amicizia prima di me. Dovevi sapere che questo dirottamento poteva terminare soltanto con la mia morte. Ma a quanto pare non te ne importava».

«Non mi aspettavo che tu…»

«Già», disse l’altoparlante. «Mi chiedo se saresti stato altrettanto pronto a eseguire il piano se io avessi avuto ancora una forma umana. In quanto all’amicizia… usa gli espedienti che ti suggerisce la tua psicologia, Van. Tu guardi al mio corpo meccanico come a un nemico, una barriera fra te e il vero Bart Quentin. Forse a livello inconscio lo odi, e perciò sei disposto a distruggerlo. Anche se distruggerai me con esso. Non so… Forse stai razionalizzando tutta la faccenda pensando in tal modo di salvarmi da quella cosa che ha eretto la barriera. E ti dimentichi che, in sostanza, io non sono cambiato».

«Un tempo giocavamo a scacchi insieme», fece Talman, «ma non ci mettevamo mica a spaccare le pedine».

«Io sono sotto scacco», replicò Quentin, «e tutto quello che mi rimane per combattere sono i cavalli. Tu hai ancora torri e alfieri. Tu puoi puntare dritto al tuo bersaglio. Ti arrendi?»

«No!» gridò Talman. I suoi occhi fissavano sempre quel punto rosso. Lo vide muoversi con un leggero tremito, e si afferrò con una stretta convulsa alla sbarra metallica. Il suo corpo fu sbalzato fuori dalla ringhiera come su un’altalena, quando la nave schizzò via. Una mano guantata fu strappata dall’appiglio, ma l’altra tenne. Il globo azzurro dondolò violentemente. Talman lanciò una gamba sopra la ringhiera e tornò ad arrampicarsi sul suo precario posatoio. Guardò giù.

Fern era ancora aggrappato al suo cavo di emergenza. Dalquist e il piccolo Cotton stavano slittando lungo il pavimento e si arrestarono con uno schianto contro un pilastro. Qualcuno urlò.

Sudando, Talman si calò cautamente in basso. Ma quando ebbe raggiunto Cotton, vide che era morto. Una ragnatela di crepe sulla visiera del suo casco e i lineamenti contorti e scoloriti gliel’indicarono al di là di ogni dubbio.