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Talman chinò la testa; il sudore gli colò sul naso all’interno della visiera del casco. Ebbe un improvviso attacco di claustrofobia; paura dello spazio troppo stretto della sua tuta, e paura della prigione molto più grande costituita dalla sala e dalla nave stessa.

«Sei limitato, Quent», riprese, con voce troppo alta. «Le tue armi sono limitate. Non puoi regolare la pressione atmosferica, qua dentro, o l’avresti già compressa al punto da schiacciarci».

«Schiacciando nello stesso tempo un bel po’ di equipaggiamento vitale. Inoltre, quelle tute possono sopportare una pressione molto alta».

«Il tuo re è ancora sotto scacco».

«Anche il tuo», replicò Quentin senza scomporsi.

Fern rivolse a Talman una lunga occhiata che conteneva approvazione e una traccia di trionfo. Sotto i goffi guanti, manipolando strumenti delicati, l’allacciamento cominciava a prender forma. Per fortuna era un lavoro di conversione più che di costruzione, altrimenti non vi sarebbe stato tempo a sufficienza.

«Godetevela fin che potete», disse ancora Quentin. «Sto per sbattervi addosso tutte le G che possiamo sopportare».

«Non sento niente», rispose Talman.

«Tutte quelle che possiamo sopportare, non tutte quelle che potrei sviluppare. Procedete pure e divertitevi. Non potete vincere».

«No?»

«Be’… Rifletteteci su. Fintanto che ve ne state attaccati da qualche parte, siete abbastanza al sicuro. Ma se comincerete a muovervi d’attorno, allora potrò distruggervi».

«Il che significa che dovremo muoverci… da qualche parte… per raggiungerti, eh?»

Quentin scoppiò a ridere. «Non ho detto questo. Sono ben mimetizzato. Spegni quell’affare!

L’urlo echeggiò e riecheggiò contro l’alto soffitto, scuotendo l’aria giallastra. Talman sussultò nervosamente. Incontrò lo sguardo di Fern e colse il suo sogghigno.

«Sta avendo effetto», disse Fern. Poi ci fu silenzio per molti minuti.

La nave diede in un balzo improvviso. Ma l’irradiatore di frequenza era saldamente ancorato, e anche gli uomini erano legati ai loro cavi.

«Spegnilo», disse di nuovo Quentin. La sua voce non era del tutto controllata.

«Dove ti trovi?» chiese Talman.

Nessuna risposta.

«Possiamo aspettare, Quent».

«Continuate ad aspettare, allora lo… non vengo distratto da paure personali. È uno dei vantaggi di essere un transplant».

«Ha un alto effetto irritante», mormorò Fern. «E fa subito effetto».

«Suvvia, Quent», riprese Talman, con voce suadente. «Hai ancora l’istinto dell’autoconservazione. Questo non può essere piacevole per te».

«È… troppo piacevole». La voce di Quentin si era fatta ineguale. «Ma non funzionerà. Ho sempre ben sopportato l’alcool».

«Questo non è alcool», replicò Fern. Mosse un comando.

Il transplant scoppiò a ridere; Talman constatò con soddisfazione che stava perdendo il controllo orale. «Non funzionerà, ti dico. Sono troppo furbo per voi».

«Sì?»

«Sì. Non siete degli idioti… nessuno di voi lo é. Fern è un buon tecnico, forse, ma non è bravo abbastanza. Van, ricordi che a Quebec mi avevi chiesto se c’era stato qualche… cambiamento? Ti avevo detto di no. Adesso sto scoprendo che mi sbagliavo».

«Come?»

«L’assenza di distrazione». Quentin parlava troppo; un sintomo d’intossicazione. «Un cervello dentro il corpo non può mai concentrarsi del tutto. È troppo conscio del suo stesso corpo, il quale è un meccanismo imperfetto. Troppo specializzato per essere efficiente. Il sistema respiratorio, circolatorio… tutti interferiscono. L’atto stesso della respirazione è una distrazione. Adesso, il mio corpo è la nave… ma è un meccanismo perfetto. Funziona con assoluta efficienza. E il mio cervello è migliorato in uguale proporzione».

«Superman».

«Superefficiente. Di solito, è la mente migliore che vince agli scacchi, perché prevede tutti i rischi possibili. Io sono in grado di prevedere tutto ciò che potreste fare. E siete per di più molto ostacolati».

«Perché?»

«Siete umani».

Egocentrismo, pensò Talman. Era forse quello il suo tallone d’Achille? I successi finora ottenuti avevano alterato il suo equilibrio psicologico, e l’equivalente elettronico dell’ubriachezza aveva liberato le inibizioni. Era logico. Dopo cinque anni di lavoro di routine, non importa quanto nuovo potesse essere per lui quel lavoro, ecco l’improvvisa modifica alla situazione — quel passaggio dal passivo all’attivo, da essere una pura macchina a trovarsi protagonista — questo poteva essere stato il catalizzatore. L’ego. E un modo di pensare confuso.

Quentin non era un supercervello. Proprio no. Più alto è il quoziente di intelligenza, minore è la necessità di autogiustificazione, diretta o indiretta. E, cosa strana, Talman a questo punto si sentì libero da qualunque scrupolo gli fosse rimasto. Il vero Bart Quentin non si sarebbe mai reso colpevole di schemi di pensiero paranoici.

Così…

Le parole di Quentin erano chiare; non farfugliava. Ma non parlava più con l’ugola, la lingua e le labbra, modulando una colonna d’aria. Tuttavia, il controllo tonale della sua voce era adesso alterato in maniera percettibile, la voce del transplant oscillava da un sussurro a un urlo.

Talman sogghignò. In qualche modo, si sentiva meglio.

«Siamo umani», disse, «ma ancora sobri».

«Sciocchezze. Guarda la spia. Ci stiamo avvicinando alla Terra».

«Piantala, Quent», replicò Talman, stancamente. «Tu stai bluffando, tutti e due sappiamo che stai bluffando. Non puoi resistere a una quantità indefinita d’alta frequenza. Risparmia tempo e arrenditi subito».

«Arrendetevi voi», ribatté Quentin. «Posso vedere tutto ciò che fate. L’intera nave pullula di trappole. Tutto quello che devo fare da quassù e guardare fino a quando non vi avvicinate a una di esse. Sto pianificando il mio gioco in anticipo, ogni mossa è accuratamente elaborata per dare scacco a uno di voi. Non avete una sola possibilità. Una sola possibilità. Una sola possibilità».

Da quassù, pensò Talman. Quassù dove? Ricordò la casuale osservazione di Cotton, sul fatto che la geometria avrebbe potuto essere usata per localizzare il transplant. La geometria e la psicologia. Dividere in due la nave, in quattro, e continuare a sezionare a metà quanto rimaneva…

Non era più necessario. Quassù era la parola-chiave. Talman vi si aggrappo con una frenesia che non trapelò dalla sua faccia. Quassù, c’era da presumere, riduceva a metà l’area che dovevano esplorare. La metà più bassa della nave poteva essere esclusa. Ora doveva dividere in due la sezione più alta, usando il globo celeste come mezzeria.

Il transplant doveva avere, ovviamente, cellule visive disseminate per tutta la nave, ma Talman ritenne che Quentin dovesse pensare a se stesso come ubicato in un punto ben determinato, e non sparso dovunque nello scafo, in corrispondenza di ogni occhio meccanico. Per la mente di un uomo, la testa è il punto in cui egli si trova.

Quindi, anche se Quentin poteva vedere il punto rosso sul globo azzurro, ciò non significava affatto che dovesse per forza trovarsi in un punto della parete dirimpetto alla sfera. Il transplant doveva esser convinto, senza accorgersene, a nominare altri oggetti, là a bordo della nave, così che si potesse scoprire la sua attuale posizione rispetto ad essi… anche se ciò era difficile, poiché, appunto, è la vista che costituisce il miglior riferimento d’una posizione. Questo non creava problemi in un individuo normale, ma con Quentin… la sua vista era distribuita dovunque, poteva veder tutto.

Ma doveva pur esserci un modo per localizzarlo.