Sbuffai. — Ti ho detto che le ho già sentite queste cose. Questo vuol dire che gli umani sono profondi quanto i Drac.
Jerry rise. — Insisti sempre nell’intendere le mie affermazioni in maniera razzista. Quello che ho detto si applica a te, non alla razza umana…
Sputai sul terreno gelato. — Voi Drac credete di essere molto furbi. — Il vento rinforzò, e sentii il sapore della salsedine. Stava arrivando una tempesta. Il cielo aveva assunto quella curiosa sfumatura che mi ricordava il blu della mezzanotte, piuttosto che il nero. Un pezzettino di ghiaccio mi si infilò sotto il colletto.
— Che c’è di male se sono quello che sono? Non c’è mica bisogno che tutti quanti nell’universo facciano i filosofi, faccia di rospo! — C’erano milioni, miliardi di esseri come me. Forse di più. — Che differenza fa se medito sull’esistenza oppure no? Esisto, e tanto mi basta.
— Davidge, tu non conosci neppure i tuoi ascendenti al di là dei tuoi genitori, e adesso dici che ti rifiuti di conoscere quello che puoi sull’universo. Come potrai sapere qual è il tuo posto nell’esistenza, Davidge? Dove sei? Chi sei?
Scossi la testa, guardando la tomba, poi mi voltai verso il mare. Fra un’ora o anche meno, sarebbe stato troppo buio per vedere le creste delle onde. — Io sono io, ecco chi sono. — Ma ero io quello che aveva minacciato Zammis con la pietra, un bambino indifeso? Mi sentii gelare le viscere. Era come se la solitudine avesse messo artigli e zanne, e stesse dilaniando le poche parti ancora sane della mia mente. Voltai le spalle alla tomba, chiusi gli occhi, poi li riaprii. Sono un pilota di caccia, Jerry. Non è abbastanza?
Questo è quello che fai, Davidge; non quello che sei.
Mi inginocchiai vicino alla tomba e strinsi fra le mani le pietre coperte di ghiaccio. — Sta’ zitto, Drac! Sei morto! — Mi fermai, rendendomi conto che le parole che avevo sentito erano tratte dal Talman, e adattate alla mia situazione. Mi accasciai sulle rocce, poi, sotto la sferza del vento, mi rialzai. — Jerry, Zammis non vuol mangiare. Sono tre giorni ormai. Cosa devo fare? Perché non mi hai detto niente sui neonati Drac prima di… — Mi coprii la faccia con le mani. — Calma, ragazzo. Fatti forza, e tutto andrà bene. — Il vento mi soffiava contro la schiena. Abbassai le mani e tornai alla caverna. Alla fine lo scoprii all’imboccatura della caverna, che puntava dritto di fuori. Ne avevo abbastanza. Fabbricai una bardatura di pelli di serpente, con un guinzaglio dello stesso materiale che legai a una sporgenza della roccia. Zammis continuava a ficcarsi dappertutto, ma almeno sapevo dove trovarlo.
Quattro giorni dopo aver imparato a camminare, volle mangiare. I piccoli Drac sono probabilmente i bambini più discreti e comodi dell’universo. Vivono del proprio grasso per circa tre o quattro settimane terrestri, e per tutto quel tempo non sporcano. Dopo che hanno imparato a camminare, e possono quindi arrivare a un posto adatto ai loro bisogni, allora vogliono il cibo. Mostrai una volta a Zammis la cassettina che avevo preparato per lui, e non dovetti più farlo. Dopo cinque o sei lezioni, Zammis era capace di pulirsi da solo. Osservando il piccolo Drac che cresceva, cominciai a capire quei piloti della mia squadra che mostravano a tutti quelli che capitavano loro a tiro innumerevoli fotografie di brutti bambini, accompagnate ognuna da una spiegazione di mezz’ora. Prima che il ghiaccio si sciogliesse, Zammis aveva cominciato a parlare. Gli insegnai a chiamarmi zio.
In mancanza di un termine migliore, chiamai primavera la stagione in cui il ghiaccio si scioglieva. Ma ci sarebbe voluto ancora molto tempo prima che gli alberi mostrassero del verde, e che i serpenti si avventurassero fuori dalle loro tane. Il cielo continuava a essere coperto da una cortina di nubi scure e minacciose, ogni tanto nevicava, e la neve di notte si trasformava in ghiaccio. Ma il giorno dopo, il ghiaccio si scioglieva, e il calore dell’aria penetrava per un altro millimetro nel suolo.
Mi resi conto che era ora di cominciare a raccogliere la legna. Io e Jerry, lavorando assieme, non ne avevamo raccolta abbastanza, l’anno prima. La breve estate avrei dovuto passarla a mettere da parte il cibo. Speravo di costruire una porta vera e propria all’ingresso della caverna, e mi ripromisi di escogitare un sistema per liberarci dai nostri rifiuti senza dover uscire. Fare i propri bisogni all’aperto, nel mezzo dell’inverno, poteva essere pericoloso. La mia mente era piena di progetti, mentre mi stendevo sul materasso, osservando il fumo che saliva attraverso la fessura del soffitto. Zammis era sul retro della caverna, a giocare con delle pietre. Mi addormentai, e venni svegliato dal piccolo che mi tirava per un braccio.
— Zio?
— Eh?
— Zio, guarda.
Mi voltai su un fianco. Zammis teneva una mano alzata, con le dita aperte. — Cosa c’è, Zammis?
— Guarda. — Si toccò a una a una le dita. — Uno, due, tre.
— E allora?
— Guarda. — Mi prese la mano e mi fece allargare le dita. — Uno, due, tre, quattro, cinque!
Annuii. — Bravo, sai contare fino a cinque.
Il Drac aggrottò le ciglia e fece un gesto di impazienza con i piccoli pugni. — Guarda. — Mi prese la mano e vi mise sopra la sua. Con l’altra, indicò prima una delle sue dita, poi una delle mie. — Uno, uno. — I suoi occhi gialli mi fissarono per vedere se capivo.
— Sì.
Il bambino indicò ancora. — Due, due. — Mi guardò, poi tornò a indicare sulla mano. — Tre, tre. — Afferrò le due dita che mi rimanevano. — Quattro, cinque! — Lasciò cadere la mia mano, e indicò il fianco della sua. — Quattro cinque?
Scossi la testa. Zammis, a meno di quattro mesi, aveva individuato una delle differenze fra i Drac e gli uomini. Un bambino umano ci avrebbe messe cinque, sei, forse sette anni prima di cominciare a fare domande del genere. Sospirai. — Zammis.
— Sì, zio?
— Zammis, tu sei un Drac. I Drac hanno solo tre dita per mano. — Alzai la mano e mossi le dita. — Io sono umano, e ne ho cinque.
Giuro che mi sembrò di vedere i suoi occhi riempirsi di lacrime. Alzò le mani, le guardò, poi scosse la testa. — Crescono quattro e cinque?
Mi alzai e fissai il bambino. — Vedi, Zammis, io e te siamo diversi… esseri di tipo diverso, capisci?
Zammis scosse la testa. — Crescono quattro e cinque?
— No. Tu sei un Drac. — Mi puntai un dito contro il petto. — Io sono un uomo. — In quel modo non sarei approdato a molto. — Il tuo genitore, quello da cui sei nato, era un Drac, capisci?
Zammis aggrottò le ciglia. — Quale Drac?
Sentii la tentazione di ricorrere al vecchio espediente di dire: Capirai quando sarai più grande. Scossi la testa. — I Drac hanno tre dita per mano. Il tuo genitore aveva tre dita per mano. — Mi fregai la barba. — Il mio genitore era un uomo e aveva cinque dita per mano. Ecco perché io ho cinque dita.
Zammis si inginocchiò sulla sabbia e si studiò le dita. Mi guardò, poi si guardò le dita, poi mi guardò ancora. — Quale genitore?
Mi resi conto che Zammis doveva avere una specie di crisi di identità. Io ero la sola persona che avesse mai conosciuto, e avevo cinque dita per mano. — Un genitore è… quello che… — Mi grattai ancora una volta la barba. — Senti, noi tutti veniamo da qualche parte. Io avevo una madre e un padre… sono due tipi diversi di umani… che mi hanno dato la vita; mi hanno fatto, capisci?
Zammis mi diede un’occhiata che sembrava voler dire: Questo ha qualche rotella fuori posto. Alzai le spalle. — È difficile da spiegare.
Zammis si indicò il petto. — Mio padre? Mia madre?