Mi alzai faticosamente. Jerry aprì gli occhi, e con una mossa rapida si accucciò in posizione di difesa. Feci un gesto con la mano e scossi la testa. — Calma, Jerry. Voglio solo dare un’occhiata in giro. — Gli voltai le spalle e mi arrampicai tra i massi. Qualche minuto dopo raggiunsi un terreno pianeggiante.
Era proprio un’isola, e neanche molto grande. A occhio e croce, l’altezza massima sul livello del mare raggiungeva gli ottanta metri, la lunghezza circa due chilometri, e la larghezza uno. Il vento che mi sferzava servì almeno ad asciugarmi la tuta, ma osservando i massi levigati sulla cima della collina, mi resi conto che io e Jerry dovevamo aspettarci delle ondate ancora più grosse di quelle che avevamo sperimentato fin’ora.
Sentii un rumore alle mie spalle, e vidi Jerry arrampicarsi. Il Drac raggiunse la cima e si guardò intorno. Mi inginocchiai vicino a uno dei massi e ci passai sopra la mano per fargli notare che era liscio, poi indicai il mare. Jerry annuì. — Ae, gavey. — Indicò la capsula, poi il punto dove stavamo. — Echey masu, nasesay.
Aggrottai le ciglia, portai il dito verso la capsula. — Nasesay? La capsula?
— Ae, capsula nasesay. Echey masu. — Jerry indicò ai suoi piedi.
Scossi la testa. — Jerry, se tu gavey perché queste rocce sono lisce — ne indicai una — allora gavey che masu-are la nasesay fin quassù non servirà a un accidente. — Mossi le mani su e giù. — Indicai il mare. — Onde quassù. — Indicai dove stavamo. — Onde echey.
— Ae, gavey. — Jerry si guardò in giro, poi si fregò il mento. Si sedette vicino a delle piccole rocce e cominciò a metterle una sopra l’altra. — Viga, Davidge.
Mi inginocchiai vicino a lui e osservai le sue dita veloci costruire un cerchio di pietre, una specie di arena in miniatura. Jerry infilò un dito in mezzo al cerchio. — Echey, nasesay.
I giorni, su Fyrine IV, sembrava che durassero tre volte quelli di tutti gli altri pianeti abitabili che avevo conosciuto. Anche se abitabile, riferito a Fyrine IV è un eufemismo. Ci volle quasi tutto il primo giorno per far rotolare la nasesay di Jerry in cima alla collina. La notte era troppo buio per lavorare, e inoltre faceva un freddo cane. Togliemmo il sedile dalla capsula, ricavando spazio appena sufficiente per infilarci dentro entrambi. Il calore dei nostri corpi riscaldò un po’ l’ambiente, e passammo il tempo a dormire, a mangiare le razioni di Jerry (avevano un sapore a metà fra quello del pesce e del pecorino), e cercando di trovare un accordo sulla lingua.
— Occhio.
— Thuyo.
— Dito.
— Zurath.
— Testa.
Il Drac rise.
— Lode.
— Ah, ah, che ridere.
— Ah ah.
All’alba del secondo giorno facemmo rotolare la capsula al centro del piccolo altopiano, incastrandola fra due grossi massi, uno dei quali aveva una sporgenza che, nelle nostre speranze, doveva servire a trattenerla all’arrivo delle ondate. Tutto attorno disponemmo delle pietre piuttosto grosse come fondamenta, e riempimmo le fessure con pietre più piccole. Quando il nostro muro ebbe raggiunto l’altezza delle ginocchia, ci rendemmo conto che una costruzione fatta con quelle pietre lisce e tonde, senza malta, non poteva stare in piedi. Dopo qualche esperimento, scoprimmo un sistema per spaccare le pietre, in modo da avere dei lati piatti: prendevamo una pietra e la sbattevamo con violenza sopra un’altra. Facemmo a turni: uno spaccava pietre e l’altro costruiva. La pietra era una specie di vetro vulcanico, e facevamo anche dei turni per toglierci le schegge a vicenda. Ci vollero nove di quegli interminabili giorni per finire il muro. Le ondate ci vennero varie volte vicino, e una ci arrivò alle caviglie. Per sei di quei nove giorni piovve. La dotazione della capsula includeva un telo di plastica, e questo divenne il nostro tetto. Si riempiva al centro, così ci praticammo un buco, che ci fornì anche una riserva di acqua fresca. Se arrivava un’ondata di una certa entità, potevamo dire addio al nostro tetto; ma noi avevamo fiducia nel muro, che era spesso circa due metri alla base, e uno alla sommità.
Una volta finito, ci sedemmo all’interno e ammirammo la nostra opera per circa un’ora, finché non cominciammo a renderci conto che eravamo restati senza niente da fare. — E adesso Jerry?
— Ess?
— Adesso cosa facciamo?
— Adesso aspettare noi. — Il Drac alzò le spalle. — Cosa altro, ne?
Annuii. — Gavey. — Mi alzai e andai alla porta. Non avendo legname per fare una porta vera e propria, nel punto dove i due muri avrebbero dovuto incontrarsi, a uno avevamo fatto fare una curva, estendendolo per circa tre metri, parallelamente all’altro, con l’apertura dalla parte opposta rispetto ai venti prevalenti. I venti non avevano mai smesso di soffiare, ma la pioggia era cessata. Il nostro muro non era gran che da guardare, ma vederlo lì, nel bel mezzo di quell’isola deserta, mi faceva sentir bene. Come dice Shizumaat: La vita intelligente prende posizione contro l’universo. O almeno, era questo il senso che ero riuscito a ricavare dall’inglese pasticciato di Jerry. Presi una scheggia appuntita e feci un altro segno sulla roccia che mi serviva da calendario. Dieci segni in tutto e sotto il settimo una piccola X per indicare la grossa ondata che aveva sfiorato la cima dell’isola.
Gettai a terra la scheggia.
— Dannazione, odio questo posto!
— Ess? — Jerry sporse la testa dall’altra parte dell’apertura. — Parli chi, Davidge?
Gli lanciai un’occhiataccia. — A nessuno.
— Ess va «nessuno»?
— Nessuno. Niente.
— Ne gavey, Davidge.
Mi battei sul petto col dito. — Me! Parlo a me stesso! Questo lo gavey, faccia di rospo?
Jerry scosse la testa. — Davidge, ora dormo. Non parlare tanto a nessuno, ne? — Sparì dietro alla parete di roccia.
— Ma va a quel paese, figlio di… — Mi incamminai lungo il fianco della collina. Solo che tu una madre, a rigor di termini, non ce l’hai, faccia di rospo. E neanche un padre. «Se potessi scegliere, con chi ti piacerebbe fare naufragio su un’isola deserta?» Mi chiesi se qualcuno aveva mai scelto di finire in un angolo gelato dell’inferno, insieme a un ermafrodito.
Giunto a metà del pendio, seguii un sentiero che avevo segnato con delle rocce fino a una pozza formata dalle maree, e che avevo ribattezzato ranch delle lumache. Attorno alla pozza c’erano numerose rocce, e sotto di queste, nell’acqua bassa, vivevano i più grossi lumaconi marini che avessi mai visto. Avevo fatto la scoperta durante una pausa dei lavori e avevo chiamato Jerry.
Jerry aveva alzato le spalle. — E allora?
— Come allora? Senti, Jerry, le tue reazioni non dureranno in eterno. Cosa mangeremo quando saranno finite?
— Mangiare? — Jerry guardò i lumaconi che si contorcevano e fece una smorfia. — Ne, Davidge. Prima prendono noi. Cercano, trovano e prendono noi.