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— Lo vedi cosa abbiamo intenzione di fare, Irkmaan: combattiamo!

— Puah! Tu lo chiami un combattimento quella scaramuccia? Accidenti, Jerry, non farmi ridere, con quelle vostre bagnarole…

— Ah, Davidge! È per questo che te ne stai qui a masticare carne di serpente!

Tirai fuori il pezzo di carne dura che avevo in bocca e lo puntai verso Jerry. — Mi pare che anche il tuo fiato puzzi di serpente, Drac.

Jerry sbuffò e voltò le spalle al fuoco. Mi sentii uno stupido: primo, perché non potevamo risolvere noi due una contesa che funestava cento pianeti da più di un secolo. Secondo, perché volevo che Jerry controllasse la mia recitazione. Aveva mandato a memoria più di cento generazioni. Il Drac si era messo di sbieco rispetto al fuoco, e la luce era sufficiente per mostrare che stava cucendo qualcosa.

— Jerry, cosa stai facendo?

— Non ho niente da dirti, Davidge.

— Su, non fare così. Dimmi cos’è.

Jerry voltò la testa per guardarmi, poi prese un vestitino di pelle di serpente. — Per Zammis. — Jerry sorrise. Io scossi la testa e mi misi a ridere.

Parlammo di filosofia.

— Tu hai studiato Shizumaat, Jerry; perché non mi dici qualcosa dei suoi insegnamenti?

Jerry aggrottò le ciglia. — No, Davidge.

— Perché? È un segreto, o qualcosa del genere?

Jerry scosse la testa. — No, ma lo onoriamo troppo per parlarne. Mi fregai il mento. — Vuoi dire per parlarne in generale, o per parlarne con un umano?

— Non con gli umani, Davidge. Con te.

— Perché?

Jerry sollevò la testa e strinse gli occhi. — Non ti ricordi più quello che mi hai detto, sull’isola?

Mi grattai la testa. Mi ricordo vagamente di aver detto qualcosa sulle abitudini culinarie di Shizumaat. Spalancai le braccia. — Ma Jerry, ero infuriato. Non puoi ritenermi responsabile per quello che ho detto.

— E invece sì.

— Cambierebbe qualcosa se mi scusassi?

— No.

Mi trattenni dal dire qualcosa di offensivo, e ripensai a quel giorno, in cui io e Jerry eravamo pronti a farci la pelle a vicenda. Mi ricordai di un particolare, e dovetti fare uno sforzo per non sorridere. — Mi spiegherai gli insegnamenti di Shizumaat, se io ti perdono… per quello che hai detto di Topolino? — Chinai la testa fingendo reverenza, ma in realtà per non farmi vedere a ridere.

Jerry mi guardò con aria contrita. — Mi sono sempre sentito in colpa per quella cosa, Davidge. Se mi perdoni, ti parlerò di Shizumaat.

— Ti perdono, Jerry.

— Un’altra cosa.

— Cosa?

— Tu devi spiegarmi gli insegnamenti di Topolino.

— Sì,… cercherò di fare del mio meglio.

Parlammo di Zammis.

— Jerry, cosa vuoi che faccia da grande?

Il Drac alzò le spalle. — Zammis deve fare onore al nome che porta. È il massimo che posso chiedere.

— Zammis sceglierà quello che vorrà?

— Sì.

— Ma c’è qualcosa che ti piacerebbe che facesse?

Jerry annuì. — Sì, c’è.

— E cos’è?

— Che un giorno o l’altro se ne andasse da questo schifoso pianeta.

Annuii. — Amen.

— Amen.

L’inverno non accennava a finire. Io e Jerry cominciammo a chiederci se per caso non eravamo capitati all’inizio di un’era glaciale. Fuori dalla caverna, tutto era coperto da uno spesso strato di ghiaccio; il freddo e il vento ininterrotto rendevano l’avventurarsi fuori una sfida alla morte, per caduta o per congelamento. Tuttavia, per mutuo accordo, uscivano entrambi per fare i nostri bisogni. C’erano parecchie camere isolate nella profondità della caverna, ma avevamo paura di inquinare la nostra riserva d’acqua; per non parlare dell’aria. Il rischio più grave uscendo, era quello di calarsi le braghe mentre soffiava un vento talmente gelido da gelarci il fiato prima che potessimo soffiarlo fuori dalla maschera che c’eravamo fabbricati con la tela delle nostre tute. Imparammo a non perdere tempo.

Una mattina, Jerry era fuori per un bisogno urgente, mentre io preparavo una pasta di radici secche e di acqua per fare delle frittelle. Sentii Jerry chiamarmi dall’entrata. — Davidge!

— Cosa c’è?

— Vieni subito, Davidge!

Una nave! Doveva essere una nave! Appoggiai sulla sabbia la conchiglia che mi serviva da recipiente, mi infilai guanti e cappello, e corsi verso il passaggio. Prima di uscire mi allacciai sulla bocca la maschera. Jerry, bardato come me, era sulla soglia. — Cosa succede?

Jerry si fece da parte. — Guarda!

La luce del sole. Il cielo azzurro e la luce del sole. Lontano, sul mare, si stavano accumulando nuove nuvole, ma sopra di noi il cielo era sereno. Non potevamo guardare direttamente il sole, ma voltammo le facce ai suoi raggi e li sentimmo scaldarci la pelle. La luce si rifletteva abbagliante sulle rocce e sugli alberi coperti di ghiaccio. — È meraviglioso.

— Sì. — Jerry mi prese per la manica. — Davidge, sai cosa vuol dire?

— Cosa?

— Possiamo fare dei segnali di fuoco, la notte. In una notte serena un grosso fuoco potrebbe essere avvistato dallo spazio, ne?

Guardai Jerry, poi ancora il cielo. — Non saprei. Se il fuoco fosse grande abbastanza, e la notte serena, e se qualcuno guardasse da questa Parte… — Crollai la testa. — Sempre supponendo che ci sia qualcuno in orbita. — Cominciai a sentirmi le dita intirizzite. — È meglio che rientriamo.

— Davidge, è una possibilità!

— E cosa useremo per fare il fuoco? — Indicai con il braccio gli alberi attorno e sopra la caverna. — Hanno sopra almeno quindici centimetri di ghiaccio.

— Nella caverna…

— La nostra legna? — scossi la testa. — Che ne sappiamo di quanto durerà ancora questo inverno? Sei sicuro che possiamo sprecare legname?

— È una possibilità, Davidge!

Più che una possibilità, era un rischio. Alzai le spalle. — Perché no?

Passammo le ore seguenti a trasportare fuori un quarto delle nostre preziose riserve. Quando finimmo, e molto prima che arrivasse la notte, sul cielo era tornata a stendersi una cortina di nubi, grigia e uniforme. Ogni notte, da allora, a più riprese, scrutammo il cielo sperando di vedere le stelle. Durante il giorno, dovevamo passare parecchie ore a battere sulla pila di legna per liberarla dal ghiaccio. Ma ci dava speranza. Finché, un giorno, la legna nella caverna finì, e dovemmo cominciare a prelevarla dal mucchio preparato per il segnale.

Quella notte, per la prima volta, il Drac sembrò completamente sconfitto. Sedeva di fronte al fuoco, fissando le fiamme. Infilò una mano sotto la giacca di pelle, e tirò fuori un piccolo cubo d’oro appeso al collo con una catena. Strinse il tubo fra le mani, chiuse gli occhi, e cominciò a mormorare sotto voce in drac. Lo osservai dal mio letto finché non ebbe finito. Il Drac sospirò, fece un cenno col capo e si rimise il cubo sotto la giacca.

— Che cos’è?

Jerry mi guardò, aggrottò le ciglia e si toccò il davanti della giacca. — Questo? È il mio Talman… quello che voi chiamate Bibbia.

— La Bibbia è un libro. Con delle pagine, che si leggono.

Jerry tirò fuori il cubo, mormorò una frase in drac, poi aprì una piccola serratura. Dal primo cubo ne uscì un altro, pure d’oro. Il Drac me lo porse. — Trattalo con grande cura, Davidge.

Mi alzai a sedere, presi il cubo e lo esaminai alla luce del fuoco. Tre quadrati di metallo dorato, con delle cerniere, formavano le copertine e la costa di un libro grande due centimetri e mezzo. Aprii il libro. Sulle pagine c’erano due colonne di punti, di linee e di scarabocchi. — È drac?

— Certo.

— Non so leggerlo.