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Il vento mi fece barcollare, e per poco non scivolai sul ghiaccio. Guardai verso il mare in tempesta, mi strinsi intorno al corpo la giacca, poi guardai la pila di rocce. Dovrei dire qualcosa. Non si sotterra uno, e poi si va a mangiare come se niente fosse. Dovrei dire qualcosa. Ma cosa? Non ero religioso, e neppure il Drac lo era stato. La sua filosofia, riguardo alla morte, si accordava con il mio ripudio informale delle delizie islamiche, del Valhalla pagano e del paradiso giudeo-cristiano. La morte è la morte; finis. Buoni per i vermi… Eppure, dovrei dire qualcosa.

Infilai una mano sotto la giacca e strinsi il cubo d’oro del Talman. Sentii gli spigoli attraverso i guanti; chiusi gli occhi e ripensai alle parole dei grandi filosofi Drac. Ma non c’era niente fra quello che avevano scritto di adatto a un momento come questo.

Il Talman era un libro sulla vita. Talma significa vita, e di questo si occupa la filosofia Drac. La morte non li interessa. La morte è un fatto: la fine della vita. Il Talman non aveva parole da suggerirmi. Il vento mi sferzava, facendomi rabbrividire. Già cominciavo a non sentirmi più le dita, e i piedi mi facevano male. Eppure dovevo dire qualcosa. Ma le sole parole a cui potevo pensare avrebbero aperto i cancelli del dolore, della consapevolezza che il Drac se n’era andato. Eppure… eppure dovrei dire qualcosa.

— Jerry, io… — Non avevo parole. Voltai le spalle alla tomba, con le lacrime che si mescolavano al nevischio.

Nel calore e nel silenzio della caverna mi sedetti sul materasso, appoggiando la schiena alla parete. Cercai di perdermi fra le luci e le ombre che il fuoco gettava sulla parete di fronte. Delle immagini si formavano, poi svanivano prima che la mia mente potesse vederci qualcosa. Quand’ero bambino avevo l’abitudine di guardare le nuvole, scoprendo in esse facce, castelli, animali, draghi e giganti. Era un mondo irreale, qualcosa che aggiungeva un po’ di meraviglia e di avventura nel mondo banale di un ragazzo della classe media. Tutto quello che riuscivo a vedere sulla parete della caverna erano immagini dell’inferno: fiamme che consumavano grottesche rappresentazioni di anime dannate. Mi misi a ridere, pensandoci. Si pensa all’inferno come a un luogo infuocato, con a capo un sadico ghignante vestito di rosso. Fyrine IV mi aveva insegnato questo: che l’inferno è solitudine, fame, e freddo senza fine.

Sentii un lamento, e scrutai nel buio, verso il piccolo materasso in fondo alla caverna, quello che Jerry aveva preparato per Zammis. Si lamentò ancora. Forse voleva qualcosa. Ebbi un momento di panico. Cosa mangia un neonato Drac? I Drac non sono mammiferi. Durante l’addestramento, tutto quello che ci avevano insegnato era come riconoscere i Drac… e come ammazzarli. Cominciavo ad avere paura. — Cosa diavolo uso per pannolini?

Un altro lamento. Mi misi in piedi, e andai al suo fianco. Mi inginocchiai. Da un fagotto costituito dalla vecchia tuta di Jerry, spuntavano due braccine tozze, con tre dita. Presi il fagotto, lo portai vicino al fuoco e mi sedetti su una roccia, tenendolo in grembo. Lo aprii cautamente. Gli occhi di Zammis brillavano, gialli sotto le sopracciglia gialle, pesanti di sonno. Dalla faccia, quasi senza naso, ai denti, al colore, Zammis era in tutto e per tutto una miniatura di Jerry, tranne che per il grasso. Zammis nuotava letteralmente nel grasso. Lo girai e vidi con sollievo che non si era sporcato.

Lo guardai in faccia. — Vuoi qualcosa da mangiare?

— Guh.

Le mascelle erano pronte, e ne dedussi che i Drac mangiavano cibi solidi fin dal primo giorno di vita. Presi un pezzo di carne di serpente e le appoggiai alle labbra del bambino. Zammis girò la testa. — Su, mangia. Non troverai niente di meglio, qui.

Gli infilai di nuovo la carne fra le labbra. Zammis allungò un braccio e lo spinse via. Alzai le spalle. — Be’, si vede che non hai ancora fame abbastanza.

— Guh meh! — Agitò la testa, e con la manina mi strinse un dito, lamentandosi.

— Non vuoi mangiare, non devi essere pulito, e allora cosa vuoi? Kos va nu?

Zammis fece una smorfia e mi tirò il dito. Con l’altra mano annaspò verso il mio petto. Lo presi in braccio per sistemare la tuta, e lui mi afferrò con le mani la giacca e si tirò contro di me. Lo tenni stretto, e lui mi appoggiò la guancia sul petto. Dopo un attimo, si era addormentato. — Be’…che mi venga…

Prima della scomparsa di Jerry, non mi ero mai reso conto di quanto fossi vicino alla pazzia. La mia solitudine era come un cancro, che io nutrivo di odio: odio per il pianeta, col suo freddo che non finiva mai, i venti che non finivano mai, quell’isolamento che non finiva mai; odio Per quel bambino giallo, con il suo disperato bisogno di cure, di cibo, di un affetto che non gli potevo dare. E odiavo me stesso. Mi scoprivo a fare cose che mi spaventavano e mi disgustavano. Per rompere il muro soffocante della solitudine, parlavo, gridavo, cantavo; lanciavo maledizioni e frasi senza senso, o grugniti.

Aveva gli occhi aperti. Agitò le braccia e fece dei versi. Presi una grossa pietra, gli andai vicino e la tenni sospesa su di lui. — Se la lasciassi cadere, dove andresti a finire tu? — Mi sentii in gola una risata, e gettai via la pietra. — E perché dovrei sporcare la caverna? Fuori. Basta che ti metta fuori un minuto e moriresti. Hai capito? Moriresti!

Lui agitò le mani nell’aria, chiuse gli occhi e scoppiò a piangere. — Perché non mangi? Perché non fai la cacca? Sai solo piangere? — Lui si mise a piangere ancora più forte. — Bah! Dovrei prendere quella pietra e farla finita. Ecco cosa dovrei fare… — Mi interruppi, con un senso di repulsione. Andai al mio materasso, presi guanti e cappello, e mi preparai a uscire.

Sentii il vento ancora prima di arrivare all’entrata della caverna. Una volta fuori, mi fermai e guardai il cielo e il mare: un panorama di neri, di bianchi, di grigi e di grigi. Una folata di vento mi fece barcollare e mi rigettò verso l’ingresso. Ripresi l’equilibrio, andai fino all’orlo del dirupo e scossi il pugno verso il mare. — Avanti, soffia! Soffia, kizlode figlio di puttana! Non mi hai ancora ammazzato!

Serrai gli occhi, arrossati dal vento, poi li riaprii e guardai in basso. C’erano quaranta metri fino alla cornice inferiore, ma se prendevo la rincorsa e saltavo, poteva superarla. Scossi la testa, rivolto al mare. — Non ho intenzione di farti un favore! Se mi vuoi morto, dovrai farlo con le tue mani.

Mi guardai alle spalle, sopra la caverna. Il cielo si stava oscurando, e fra poche ore la notte sarebbe calata. Presi il sentiero che conduceva ai bosco.

Mi accucciai vicino alla tomba del Drac e studiai le rocce che avevo accumulato, già fuse assieme da uno strato di ghiaccio. — Jerry, cosa devo fare?

Il Drac sedeva vicino al fuoco. Eravamo tutt’e due intenti a cucire.

— Sai, Jerry — dissi sollevando il Talman. — Queste robe le ho già sentite. Mi aspettavo qualcosa di nuovo.

Il Drac mise giù il lavoro e mi osservò per un momento. Poi scosse la testa e riprese a cucire. — Non sei una creatura molto profonda, Davidge.

— Cosa vorresti dire?

Jerry sollevò una mano. — Davidge, qui fuori c’è un universo, un universo di vita, di oggetti, di avvenimenti. Ci sono differenze, ma è tutto contenuto nello stesso universo, e tutti noi dobbiamo obbedire alle stesse leggi universali. Ci avevi mai pensato?

— No.

— È appunto questo che volevo dire, Davidge. Non sei molto profondo.