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«No,» dice, e poi capisce come tutto sia senza speranza e si concede a lui soltanto perché sa che non ci sarà mai più un’altra possibilità.

Memnon dice: «Ho saputo da Siegmund quello che è accaduto oggi. E da tuo zio. Devi smettere di comportarti così, Aurea.»

«Gettiamoci nello scarico, Memnon.»

«Vieni con me dal consolatore. Non ti ho mai vista prima d’ora agire così.»

«Non mi sono mai sentita così minacciata.»

«Perché non puoi adattarti alla situazione?» egli chiede. «Per noi è davvero una grande possibilità.»

«Non posso. Non posso.» Cade in avanti, disfatta, avvilita.

«Smettila,» le dice. «Rimuginare rende sterili. Non potresti rassegnarti un poco?»

Non cederà ai suoi rimproveri, sebbene il tono sia ragionevole. Memnon fa venire le macchine, che la portano dal consolatore. Morbidi cuscinetti massaggianti color arancio che tengono strette le sue braccia per tutto il percorso attraverso le sale. Nell’ufficio del consolatore. Aurea viene esaminata e viene accertato il suo metabolismo. Il consolatore le strappa il racconto dei fatti. È un uomo indulgente, gentile, annoiato, con una nuvola di capelli bianchi che fanno corona a un volto roseo. Ella si chiede se egli non la odii dietro la sua dolcezza. Infine egli le dice: «Il conflitto rende sterili. Devi imparare a cedere alle richieste della società, poiché la società ti nutrirà a meno che tu non rifiuti le regole.» Consiglia il trattamento.

«Non voglio il trattamento,» ella dice con voce roca, ma Memnon lo autorizza, ed essi la conducono via. «Dove sto andando?» chiede. «Per quanto tempo?»

«Al 780° piano, per una settimana circa.»

«Dagli ingegneri morali?»

«Sì,» le dicono.

«Non là. Per favore, non là.»

«Sono indulgenti. Curano la persona inquieta.»

«Mi cambieranno.»

«Ti miglioreranno. Vieni. Vieni. Vieni.»

Per una settimana vive in una camera ermeticamente chiusa piena di fluidi caldi, scintillanti. Fluttua pigramente su un mare pulsante, pensando all’immensa monurb come a un meraviglioso piedestallo sul quale ella siede. Immagini assorbono la sua mente e tutto diviene deliziosamente nebuloso. Le parlano attraverso canali radio incassati nelle pareti della camera. Di quando in quando intravede un occhio che scruta per mezzo di una fibra ottica che ciondola sopra di lei. Fanno defluire da lei tutte le tensioni e le resistenze. L’ottavo giorno Memnon viene a cercarla. Aprono la camera ed ella viene sollevata in avanti, nuda, gocciolante, la pelle raggrinzita, imperlata da piccole gocce di fluido scintillante. La camera è piena di uomini strani. Tutti gli altri sono vestiti; le sembra di sognare mentre sta nuda davanti ad essi, ma a lei in realtà questo non importa. I suoi seni sono pieni, il suo ventre è piatto: perché allora provare vergogna? Macchine la asciugano e la vestono. Aurea sorride spessissimo. «Ti amo,» dice teneramente a Memnon.

«Dio benedica,» egli dice. «Mi sei mancata tanto.»

Il giorno è giunto e Aurea ha salutato tutti. Ha avuto due mesi per dire addio, prima ai parenti di sangue, poi agli amici del suo villaggio, poi ad altri che ha conosciuto a Chicago, e infine Siegmund e Mamelon Kluver, le sole persone che conosca fuori della sua città natale. Ha avvolto i suoi ricordi in uno stretto rotolo. Ha rivisitato la casa dei suoi genitori e la sua vecchia aula, ed ha anche compiuto il giro della monurb come un visitatore proveniente dall’esterno, così che può vedere l’impianto per la produzione di energia e il nucleo dei servizi e le stazioni di conversione per l’ultima volta.

Nel frattempo anche Memnon è stato occupato. Ogni notte le racconta le realizzazioni della giornata. I 5.202 cittadini di Monade Urbana 116 che sono destinati a trasferirsi nella nuova struttura hanno eletto dodici delegati alla commissione di guida di Monurb 158, e Memnon è uno dei dodici. È un grande onore. Notte dopo notte i delegati prendono parte a un collegamento televisivo fra tutti gli schermi di Chipitts, in modo di poter pianificare la struttura sociale dell’edificio che divideranno. È stato deciso, le dice Memnon, di dividere la monurb in cinquanta città di venti piani ciascuna, e di chiamare le città non con nomi di città scomparse della vecchia Terra, come era finora uso generale, ma con il nome di uomini famosi del passato: Newton, Einstein, Platone, Galileo e così via. Memnon sarà responsabile di un intero settore di ingegneri della diffusione del calore. Sarà un lavoro amministrativo piuttosto che tecnico, e così egli e Aurea vivranno a Newton, la città più alta.

Memnon si gonfia e freme per l’accresciuta importanza. Non vede l’ora che arrivi il momento del trasferimento. «Saremo gente veramente influente,» dice con esultanza ad Aurea. «E tra dieci o quindici anni saremo figure leggendarie al 158. I primi abitanti. I fondatori, i pionieri. Fra un secolo o giù di lì comporranno ballate su di noi.»

«E io che non volevo andare,» dice dolcemente Aurea. «Com’è strano pensare che mi comportassi in quel modo!»

«È un errore reagire con paura finché non si afferra la vera forma delle cose,» risponde Memnon. «Gli antichi pensavano che fosse una calamità avere al mondo 5.000.000.000 di persone. Tuttavia noi ne abbiamo quindici volte tanto e guarda come siamo felici!»

«Sì, molto felici. E saremo sempre felici, Memnon.»

Il segnale giunge. Le macchine sono giunte alla porta a prenderli. Memnon indica la cassa che contiene i loro pochi averi. Aurea è raggiante. Getta uno sguardo intorno al dormitorio, stupita dell’affollamento, del pigia-pigia di coppie in uno spazio così esiguo. Al 158 avremo la nostra camera, ricorda a se stessa.

I membri del dormitorio che non se ne vanno si mettono in fila, e offrono ad Aurea e a Memnon un abbraccio finale.

Memnon segue le macchine fuori e Aurea segue Memnon. Salgono alla piattaforma di atterraggio al millesimo pianò. L’alba è sorta da un’ora e il sole d’estate scintilla in macchie lucenti sulle sommità delle torri di Chipitts. L’operazione di trasferimento è già cominciata; apparecchi veloci capaci di trasportare 100 passeggeri ciascuno faranno la spola avanti e indietro tra le monadi 116 e 158 per tutto il giorno.

«E così lasciamo questo posto,» dice Memnon. «Incominciamo una nuova vita. Dio benedica!»

«Dio benedica!» grida Aurea.

Entrano nell’apparecchio che si libra in volo. I pionieri diretti a Monurb 158 rimangono senza fiato quando vedono, per la prima volta, il loro mondo come appare realmente dall’alto. Le torri bellissime, Aurea lo capisce, scintillano. Si estendono senza interruzione, e sono cinquantuno, come un cerchio di lance infisse su un ampio tappeto verde. Aurea è molto felice. Memnon tiene la sua mano su quelle di lei. Ella si chiede come abbia mai potuto temere questo giorno. Vorrebbe potersi scusare con l’universo intero per la sua follia. Lascia la mano libera appoggiata leggermente alla curva del ventre. Ora una nuova vita germoglia dentro di lei. Ad ogni momento il piccolo cresce. Hanno datato l’ora del concepimento alla sera del giorno in cui venne rilasciata dall’ufficio del consolatore. Il conflitto rende davvero sterili, Aurea l’ha capito. Ora il veleno della negatività è stato estratto da lei; ella è in grado di compiere un conveniente destino di donna.

«Sarà così diverso,» ella dice a Memnon, «vivere in un edificio così vuoto. Soltanto 250.000! Quanto tempo occorrerà per riempirlo?»

«Dodici o tredici anni,» egli risponde. «Avremo pochi decessi, perché siamo tutti giovani. E una quantità di nascite.»