«Sintonizzo!» avverte gli altri musicisti.
Inseriscono il feedback nei loro strumenti; altrimenti l’improvviso irrompere di Dillon potrebbe recar danno sia agli strumenti che ai suonatori. Ad uno ad uno gli fanno segno di essere pronti, ultimo si associa il ragazzo dell’imbibitore, ed infine Dillon può innestare. Sì! La sala si riempie di luci. Stelle fluiscono dalle pareti. Riveste il soffitto di nebulose gocciolanti. Egli è lo strumento base del gruppo, l’importantissimo continuo, che fornisce la base sulla squale gli altri faranno la loro esecuzione. Con occhio esercitato controlla il fuoco. Ogni cosa è chiara. Nat il cavalcatore-dello-spettro dice: «Il colore di Marte è un poco fuoritono, Dill.» Dillon cerca Marte. Sì. Sì. Gli fornisce un tocco extra d’arancio. E Giove? Un globo splendente di fuoco bianco. Venere. Saturno. E tutte le stelle. È soddisfatto della parte visiva.
«Alzate il suono, ora,» dice.
Il palmo delle mani colpisce il pannello di controllo. Dagli altoparlanti spalancati giunge un tenero filo di rumore bianco. La musica delle sfere. Ora lo colorisce, dando forza alla parte galattica, lasciando che il movimento stellare conferisca un colore risonante al tono. Poi, con un veloce colpo verso il basso sui proiettroni, pesta col piede sui suoni planetari. Saturno turbina come una cintura di coltelli. Giove tuona. «Lo afferrate?» esclama. «Com’è la chiarezza?» Sophro il tuffatore-orbitale dice: «Ingrossa gli asteroidi, Dill,» ed egli obbedisce. Sophro annuisce, felice, il mento tremante per il piacere.
Dopo mezz’ora di manovre preliminari Dillon ha finito l’accordatura fondamentale… Fino ad ora, tuttavia, ha fatto soltanto il lavoro di assolo. Ora deve coordinare con gli altri. Lavoro lento, delicato: raggiungere la reciprocità con loro ad uno ad uno, tessendo una rete di interdipendenza, un’unione a sette. Tormentato per tutto il tempo da effetti Heisenberg, così che un nuovo gruppo di aggiustamenti dev’essere fatto ogni volta che un nuovo strumento viene aggiunto all’insieme. Se cambia un fattore, cambia tutto; non si può mantenere invariato il proprio fattore quando si accorda in un output sempre maggiore. Per primo si unisce il cavalcatore. Facile. Dillon emette un rovescio di comete e Nat lo modula piacevolmente in soli. Poi si aggiunge l’incantatore. Dapprima un leggero stridio, presto corretto. Si procede bene. Poi l’imbibitore. Nessun problema. L’arpa-cometa, ora. Stride! Stride! I ricettori funzionano in modo confuso e tutto va in pezzi. L’incantatore e lui devono riaccordare separatamente, riunirsi, riportare nella rete l’arpa-cometa. Questa volta tutto va bene. Grandi morbide curve tonali ondeggiano nella sala.
Poi il tuffatore. Quindici minuti faticosi; gli equilibri si mantengono precari. Dillon si aspetta il crollo di tutto a ogni secondo; ma no, riescono a continuare e alla fine raggiungono un equilibrio stabile. Ed ora lo strumento veramente duro, l’invertitore doppler, che minaccia sempre di scontrarsi col suo strumento perché entrambi si basano tanto sull’immagine quanto sull’audio ed entrambi sono generatori e non soltanto modulatori della musica suonata da altri. Quasi riesce ad inserirsi. Ma perdono l’arpa-cometa. Emette un suono tagliente e lamentoso e scompare. Così devono tornare indietro di due intervalli e tentare di nuovo. È un equilibrio precario, che cade costantemente. Fino a cinque anni addietro, il gruppo cosmico era composto soltanto di cinque strumenti; era troppo difficile tener insieme un numero maggiore di strumenti. Sarebbe stato come aggiungere un quarto attore alla tragedia greca: una soluzione tecnica impossibile; o così dev’essere sembrata ad Eschilo. Ora riescono a coordinare ragionevolmente bene sei strumenti, e un settimo con qualche sforzo, collegando il circuito con un computer su a Edimburgo, ma è ancora fatica bestiale metterli tutti insieme in sincronia. Dillon gesticola pazzamente con la spalla sinistra, incoraggiando l’invertitore doppler a unirsi. «Avanti, avanti, avanti, avanti!» e questa volta ci riescono. Sono le 18,40. Tutto sta insieme.
«Ora l’eseguiamo rapidamente,» grida Nat. «Dacci il la per accordare, maestro.»
Dillon si piega in avanti e afferra i proiettroni. Dà potenza. Prende un tasto del sensore; all’improvviso le manopole sembrano i rigonfiamenti delle natiche di Elettra nelle sue mani. Sorride alla sensazione. Deciso, vivace, freddo. Andiamo su! E dà loro l’universo in uno squillo di luce e di suono. La sala ondeggia per le immagini. Le stelle balzano e si incrociano e si uniscono. L’arpa-cometa compie di getto cerchi di vertiginoso contrappunto e comincia a riarrangiare le costellazioni di Dillon. Il tuffatore-orbitale, rimasto indietro, fa un tuffo improvviso in un momento inatteso e i quadranti ruotano sul pannello di controllo di tutti, ma è un’entrata così devastante che Dillon l’applaude intimamente. L’imbibitore assorbe tono armonicamente. Ora si aggiunge l’invertitore doppler e getta il suo raggio di luce che sfrigola e fuma per forse trenta secondi prima che il cavalcatore lo riacchiappi e lo accompagni, ed ora tutti e sette improvvisano pazzamente e ognuno cerca di incitare gli altri, sparando fuori un tale tumulto di segnali che la visione deve sicuramente essere visibile da Boshwash e Sansan.
«Tienilo! Tienilo! Tienilo!» strilla Nat. «Non sprecarlo! Uomo, non sprecarlo!»
Ed essi tolgono la fase e vanno giù, e rimangono lì pigramente, sudati, i nervi scossi. Il dolore di ritirarsi; fa male abbandonare una simile bellezza. Ma Nat ha ragione: non devono esaurirsi prima che il concerto cominci.
Interruzione per la cena, proprio sul palcoscenico. Nessuno mangia molto. Lasciano gli strumenti accordati e in funzione, naturalmente. Sarebbe una pazzia spezzare la sincronia dopo un lavoro così duro per metterla a punto. Di tanto in tanto uno dei pigri strumenti si espande oltre i suoi limiti ed emette una goccia di luce o un suono acuto. Suonerebbero da soli se soltanto venisse loro permesso, pensa Dillon. Potrebbe davvero essere uno sfogo selvaggio mettere tutto in azione e sedersi, senza far nulla, mentre gli strumenti stessi danno il concerto su un proprio programma. Si coglierebbero allora alcune strane percezioni. La mente della macchina. D’altra parte potrebbe essere un colpo infernale scoprire d’essere superflui. Quant’è caduco il nostro prestigio. Oggi artisti celebri, ma lasciatevi sfuggire il segreto e domani tutti noi andremo a spingere i secchi dei rifiuti a Reykjavik.
Il concerto comincia alle 19,15. Una folla di persone più anziane; poiché è la prima sera in cui danno spettacolo a Roma, si sono distribuiti i biglietti secondo la regola della anzianità e i giovani al di sotto dei vent’anni sono stati lasciati fuori. Dillon, nel mezzo del palcoscenico, non si preoccupa di nascondere il suo disprezzo per il pubblico grigio, gonfio, che ha preso posto nelle file della sala tutt’intorno a lui. La musica riuscirà a raggiungerli? Può raggiungerli qualcosa? Oppure rimarranno seduti passivamente, senza giungere neppure a mezza strada nella comprensione dell’esecuzione? Sognando di fare un numero maggiore di bambini, ignorando il sudore degli artisti, occupando un buon posto senza ricevere nulla dai fuochi di artificio attorno a sé. Vi gettiamo l’intero universo, e voi non lo afferrate. Perché siete vecchi? Quanto può cavar fuori da uno spettacolo cosmico una donna di trentatré anni, madre di molti figli? No, non è l’età. Nelle città più raffinate non esiste il problema della reazione dell’uditorio, vecchio o giovane. No, si tratta dell’atteggiamento di base verso il mondo dell’arte. Alla base dell’edificio, i grubbo rispondono con gli occhi, le viscere: siano affascinati dalle luci colorate e dai suoni selvaggi, oppure siano sconcertati e ostili, non sono mai indifferenti. Ai piani superiori, dove l’uso della mente non è soltanto permesso ma desiderato, gli spettatori si protendono verso lo spettacolo, sapendo che più danno ad esso, più da esso ricevono. E non consiste in questo tutta la vita, nello spremere ogni percezione sensoriale che si possa trarre da tutto ciò che passa per il cervello? Che altro c’è nella vita? Ma qui, ai piani medi, tutte le risposte vengono smorzate. La cosa importante è essere presenti nell’auditorio, sottraendo il biglietto a qualcun altro; e metterlo in mostra. Lo spettacolo in sé non ha importanza. Sono soltanto suoni e luci, qualche pazzo ragazzino di San Francisco che compie una prestazione. Così quei Romani siedono là, disinseriti dal cranio all’inguine. Che scherzo. Romani! La vera Roma non era così, potete scommetterlo. Chiamare Roma la loro città è un delitto contro la storia. Dillon li guarda con disprezzo. Poi, concentrando gli occhi su un punto, deliberatamente annulla la propria vista; non vuole vedere i loro grigi volti vizzi, per timore che tale vista dia colore alla sua esecuzione. È qui per dare. Anche se essi non sono capaci di prendere.