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dare

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e finisce. Tira l’interruttore e chiude il circuito. Gli permettono di trarre l’accordo finale ed egli termina con un apricranio, una quintupla congiunzione planetaria e una tripla fuga, l’intero scoppio di esibizionismo non dura più di dieci secondi. Poi abbassa le mani e chiude l’interruttore e si alza un muro di silenzio alto novanta chilometri. Questa volta l’ha fatto. Ha riempito il cranio di tutti. Siede là tremante, mordendosi le labbra, abbagliato dalle luci del teatro: ha bisogno di gridare. Non osa guardare gli altri del gruppo. Quanto tempo passa? Cinque minuti, cinque mesi, cinque secoli, cinque megaanni? E infine la reazione. Un diluvio di applausi. Tutta Roma è in piedi, urlante, e si schiaffeggia le gote — il tributo finale, 4000 persone che lottano per uscire fuori dai loro confortevoli nidi e battono il palmo delle mani contro i loro volti — e Dillon ride, gettando indietro il capo, curvandosi, offrendo la mano a Nat, a Sophro, a tutti e sei i suoi compagni. In qualche modo questa sera è stato meglio del solito. Anche questi Romani lo sanno. Che cosa hanno fatto per meritarlo? Per essere simili esseri informi, Dillon si dice, essi hanno tratto fuori il meglio che avevamo in noi. Accenderli. E noi l’abbiamo fatto. Li abbiamo messi fuori dei loro miserabili crani pesanti.

L’applauso continua.

Bello. Bello. Siamo dei grandi artisti. Devo uscire fuori di qui, prima di scendere da tutto questo.

Non fraternizzava mai con il resto del gruppo dopo uno spettacolo. Hanno tutti scoperto che meno si vedono nelle ore di ozio, più la loro collaborazione professionale sarà intima; non c’è amicizia tra i componenti del gruppo, e neppure legami sessuali. Tutti sanno che ogni genere di accoppiamento, etero, omo, triplo sarebbe la morte, eccetto che per estranei. Hanno la musica che li unisce. Così egli esce da solo. Il pubblico comincia a fluire verso le uscite e, senza dare la buonanotte a nessuno, Dillon va alla porta a botola degli artisti e fugge al piano di sotto. I suoi abiti sono appiccicaticci e bagnati di sudore, viscosi, gli provocano disagio. Deve fare in fretta qualcosa per rimediare a questo inconveniente. Vagabondando lungo il 529° piano in cerca del pozzo di discesa, apre la porta del primo appartamento che trova e vede una coppia di sedici, diciassette anni accoccolata davanti allo schermo. Lui è nudo, lei porta soltanto spirali sul seno: entrambi veleggiano chiaramente per effetto di uno degli eccitanti più energici, ma non tanto in alto da non poterlo riconoscere. «Dillon Chrimes!» ansima la ragazza, e il suo strillo sveglia due o tre bambini.

«Eh, salute,» dice lui. «Devo soltanto usare la doccia, va bene? Non disturbatevi per me. Non voglio nemmeno parlare, sapete? Sono ancora per strada.» Si toglie gli abiti bagnati e si mette sotto la doccia. Canta a bocca chiusa e borbotta e si toglie il sudiciume, poi lascia agire la doccia sugli abiti. La ragazza sta strisciando verso di lui. Si è tolte le spirali dal seno, i segni bianchi del metallo sulla sua pelle rosa ciondolante si stanno facendo rapidamente rossi. Si inginocchia davanti a lui. Una mano va verso le sue cosce. Le labbra si posano sui suoi fianchi. «No,» egli dice. «Non farlo.»

«No?»

«Non posso farlo qui.»

«Ma perché?»

«Avevo soltanto bisogno di usare la doccia. Non potevo sopportare l’odore che avevo addosso. Questa sera ho deciso di fare la mia passeggiata notturna al 500° piano.» Le dita di lei scivolano tra le sue gambe. La scosta con garbo. Si riveste; la ragazza lo guarda, stupita, mentre si ricopre.

«Non lo farai?»

«Non qui. Non qui.» Ella continua a guardarlo mentre esce. Il suo sguardo scandalizzato lo rattrista. Questa sera deve recarsi nel mezzo dell’edificio, ma domani andrà da lei, sicuramente, e allora spiegherà tutto. Si annota il numero della camera, 52908. Si ritiene che il passeggio notturno sia fatto a caso, ma all’inferno; le deve un brivido. Domani.

Nella sala trova un distributore di droga e richiede la sua pillola, trasmettendo il suo coefficiente metabolico. La macchina esegue i calcoli necessari e consegna una dose per cinque ore, regolata in modo da fare effetto dodici minuti dopo essere stata inghiottita. La inghiotte ed entra nel pozzo di discesa.

500° piano.

Vicino quanto più gli è possibile alla metà dell’altezza dell’edificio. Un capriccio metafisico, ma perché no? Non ha perso la capacità di giocare. Noi artisti rimaniamo felici perché rimaniamo bambini. Undici minuti per raggiungere il suo piano. Percorre il corridoio, apre delle porte. Nella prima camera trova un uomo, una donna, un altro uomo. «Scusate,» dice. Nella seconda camera tre ragazze. Momentaneamente allettante, ma soltanto momentaneamente. In ogni modo, sembrano abbastanza occupate tra loro. «Scusate, scusate, scusate.» Nella terza camera una coppia di mezza età; gli rivolgono uno sguardo di speranza, ma egli si ritira.

Il quarto tentativo è fortunato. Una ragazza dai capelli scuri, un poco imbronciata. Ovviamente suo marito è fuori per la passeggiata notturna e nessuno è venuto da lei, un caso della statistica che la tormenta. Sulla ventina, pensa Dillon, con un bel naso affilato, seni eleganti, pelle olivastra. La carne sulle palpebre è gonfia, e la cosa può diventare tra dieci anni un difetto fisico, ma ora le dà uno sguardo appassionato, sensuale. È rimasta a rimuginare per ore, egli intuisce, perché il suo cattivo umore non svanisce finché egli non è realmente rimasto nella camera per quindici secondi, più o meno; si rende conto con lentezza che egli è venuto da lei per una passeggiata notturna. «Salve,» egli dice. «Sorridi? Non vuoi sorridere un poco?»

«Io ti conosco. Il gruppo cosmico?»

«Dillon Chrimes, sì. Il suonatore di vibrastar. Questa sera abbiamo suonato a Roma.»

«Suoni a Roma e passeggi a Bombay?»

«Che importa? Ho delle ragioni filosofiche. Trovarsi nel mezzo dell’edificio, sai? O nel punto più vicino alla metà che posso raggiungere. Non chiedermi di spiegarti.» Guarda attorno la camera. Sei bambini. Uno di essi, sveglio, ha almeno nove anni, una ragazzina magra con la pelle olivastra della madre. La madre non è giovane come sembra, allora. Almeno venticinque, forse. A Dillon non importa. Tra un momento brancolerà per tutto l’edificio, in ogni modo, tutte le età, i sessi, le forme. Dice: «Devo parlarti del mio viaggio. Ho ingerito una dose di multiplexer. Farà effetto tra sei minuti.»

Ella si porta la mano sulle labbra. «Non abbiamo molto tempo, allora. Dovresti essere dentro di me prima di andar su.»

«È in quel modo che agiscono?»

«Non lo sai?»

«Non ho mai fatto prima quella strada,» egli confessa. «Mai andato in giro con quello.»

«Neppur io. Non avrei pensato che qualcuno facesse realmente uso dei multiplexer, davvero. Ma ho sentito parlare di quello che si suppone si faccia in quel caso.» Mentre parla si spoglia. Seni pesanti, grandi cerchi scuri attorno ai capezzoli. Le gambe sono stranamente sottili; quando è in piedi la parte interna delle cosce è molto spaziosa. C’è una leggenda popolare sulle ragazze fatte in quel modo, ma Dillon non riesce a ricordarla. Lascia cadere gli abiti. La droga ha cominciato ad agire, parecchi minuti prima di quanto fosse scritto sulla scheda… le pareti mandano bagliori, le luci sembrano coperte di polvere. Strano. Oppure il fatto che egli fosse già per strada per via dello spettacolo non deve essere stato calcolato nel dosaggio richiesto. Il grado di metabolismo aumentato, o nient’altro che l’effetto del suono e della luce. Bene, niente di grave. Si muove verso la piattaforma-letto. «Come ti chiami?» chiede.