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Ogni giorno alle 12,30, quando comincia il loro turno, Michael Statler e i suoi nove compagni di squadra strisciano fuori del portello del 700° ad Edimburgo e si fanno strada nella perpetua oscurità del sistema di collegamento per occupare le loro postazioni di controllo. Sedie mobili li portano ai piani loro assegnati — Michael comincia il servizio controllando i nodi che abbracciano i piani dal 709° al 712° — e col procedere del giorno scivolano in su e in giù lungo il sistema di collegamento verso le diverse zone nelle quali si verificano i guasti.

Michael ha ventitré anni. Da undici anni è controllore di computer in questa squadra. Oramai il lavoro è semplicemente automatico per lui; egli è diventato semplicemente un’estensione del macchinario. Muovendosi lungo la superficie, egli sovralimenta o toglie energia, deriva o accoppia, unisce o scinde venendo incontro alle necessità del computer che serve, e fa tutto questo con fredda efficienza noncurante, operando con i soli riflessi. In ciò non c’è nulla di biasimevole. Non è desiderabile che un controllore pensi, ma soltanto che operi correttamente; anche ora, nel quinto secolo di tecnologia dei computer, il cervello umano è ancora altamente valutato per la sua capacità per centimetro cubo di fornire informazioni, e una squadra di collegamento correttamente addestrata è in realtà un gruppo di dieci di quei piccoli eccellenti computer organici che sono collegati all’unità principale. Così Michael segue le forme mutevoli delle luci, compiendo tutti gli aggiustamenti necessari, e i centri cerebrali della sua mente vengono lasciati liberi per altre cose.

Mentre lavora sogna moltissimo.

Sogna di tutti gli strani luoghi fuori di Monade Urbana 116, luoghi che ha visto sullo schermo. Sua moglie Stacion e lui sono fedeli spettatori dei programmi televisivi e raramente perdono un documentario di viaggi. Le descrizioni del vecchio mondo pre-monurb, dei ruderi, dei resti polverosi. Gerusalemme. Istanbul. Roma. Il Taj Mahal. I mozziconi di New York. Le cime degli edifici di Londra che emergono al di sopra delle onde. Tutti luoghi bizzarri, romantici, strani che si trovano al di fuori dell’involucro della monurb. Il Vesuvio. I geyser di Yellowstone. Le pianure dell’Africa. Le isole del Pacifico. Il Sahara. Il Polo Nord. Vienna. Copenaghen. Mosca. Angkor Vat. La Grande Piramide e la Sfinge. Il Gran Canyon. Il Chichén Itzà. La giungla dell’Amazzonia. La Grande Muraglia della Cina.

Esiste ancora qualcuno di questi luoghi?

Michael non ne ha idea. Una quantità di ciò che mostrano sullo schermo è vecchio di un centinaio d’anni e anche più. Sa che la diffusione della civiltà della monade ha richiesto la demolizione di molto dell’antico. La distruzione del passato culturale. Dopo aver prima registrato ogni cosa con cura a tre dimensioni, naturalmente. Ma tutto è scomparso. Uno sbuffo di fumo bianco, l’odore della pietra polverizzata, secco nelle narici, amaro. Scomparso. Senza dubbio hanno salvato i monumenti famosi. Non c’era bisogno di mangiarsi le Piramidi soltanto per fare camere per un maggior numero di monadi. Ma le grandi distese di edifici devono essere state cancellate. Le città del tempo precedente. Dopo tutto, qui ci troviamo nella costellazione Chipitts e ha sentito dire da suo cognato Jason Quevedo, lo storico, che un tempo due città chiamate Chicago e Pittsburgh segnavano i limiti polari della costellazione e che una striscia continua di agglomerati urbani si stendeva tra di esse. Dove sono ora Chicago e Pittsburgh? Non ne è rimasta traccia, Michael lo sa. Le cinquantun torri della costellazione Chipitts sorgono lungo quella striscia. Ogni cosa pulita e ben organizzata. Noi mangiamo il nostro pasto ed espelliamo monurb. Povero Jason; deve sentire la mancanza del mondo antico. Come me. Come me.

Michael sogna una avventura fuori di Monade Urbana 116.

Perché non andar fuori? Deve trascorrere qui tutti gli anni che gli restano da vivere, sospeso nel sistema di collegamento su una sedia mobile, stimolando i nodi di allacciamento? Uscire. Respirare la strana aria non filtrata che contiene gli odori di piante verdi. Vedere un fiume. Volare, in qualche modo, attorno a questo pianeta rasato, cercando i luoghi incolti. Salire sulla Grande Piramide! Nuotare in un oceano, qualsiasi oceano! Acqua salata. Com’è strano. Rimanere sotto il cielo nudo, esponendo la pelle alla terribile vampa solare, lasciandosi bagnare dalla gelida luce lunare. L’incandescenza color arancio di Marte. Osservare Venere all’alba.

«Guarda, potrei farlo,» dice a sua moglie. Placida, rigonfia Stacion. Sta portando il loro quinto figlio, una bambina, che giungerà tra pochi mesi. «Non sarebbe affatto difficile costringere un nodo a darmi un lasciapassare di uscita. E scendere per il pozzo di discesa e uscire dall’edificio prima che qualcuno lo venga a sapere. Correre nell’aria. Viaggiare attraverso i campi. Andrei ad est, a New York, diritto lungo la riva del mare. Non hanno fatto a pezzi New York, così dice Jason. Le sono soltanto passati intorno. Un monumento ai guai.»

«Come ti procureresti il cibo?» chiede Stacion. Una ragazza pratica.

«Dovrei vivere fuori delle terre coltivate. Semi selvatici e noci, come facevano gli Indiani. Caccia! Le mandrie di bisonti. Grandi, lenti animali bruni; dovrei avvicinarmi a uno di essi dalla parte posteriore e saltargli sulla schiena, proprio sulla gobba grassa e puzzolente, e affondargli le mani nella gola, yank! Non capirebbe. Nessuno caccia più. Cadono giù morti, e io avrei carne per settimane. Potrei anche mangiarla cruda.»

«Non ci sono più bisonti, Michael. Non c’è più alcun animale selvatico. Lo sai.»

«Non era una cosa seria. Pensi che potrei davvero uccidere? Uccidere? Dio benedica, posso essere bizzarro, ma non sono pazzo! No. Ascolta, attaccherei le comuni. Introdursi furtivamente la notte, afferrare verdure, una quantità di fette di carne proteoide, tutto quello che si può trovare. Quei luoghi non sono sorvegliati. Non si aspettano che gente delle monurb si aggiri per introdursi di soppiatto. Mangerei. E vedrei New York, Stacion, vedrei New York! Forse troverei là anche un’intera società di comuni di uomini selvaggi. Con navi, aeroplani, qualcosa che mi portasse al di là dell’oceano. A Gerusalemme! A Londra! In Africa!»

Stacion ride. «Ti amo quando cominci a fare il flippo in questo modo,» dice, e lo tira giù vicino a lei. Appoggia il capo di lui sulla morbida curva tesa della sua gravidanza. «Non senti ancora la piccola?» chiede Stacion. «Canta là dentro? Dio benedica, Michael, come ti amo.» Non lo prende sul serio. Chi lo farebbe? Ma egli andrà. Appeso nel sistema di collegamento, agitando interruttori e maneggiando piastre di derivazione, egli si immagina viaggiare attraverso il mondo. Un progetto: visitare tutte le vere città che diedero il nome alle città di Monurb 116. Tutte quelle che sono rimaste. Varsavia, Reykjavik, Louisville, Colombo, Boston, Roma, Tokyo, Toledo, Parigi, Shanghai, Edimburgo, Nairobi, Londra, Madrid, San Francisco, Birmingham, Leningrado, Vienna, Seattle, Bombay, Praga. Anche Chicago e Pittsburgh, a meno che non siano davvero scomparse. E le altre. Le ho nominate tutte? Tenta di contarle. Varsavia, Reykjavik, Vienna, Colombo. Perde il conto. Ma in ogni modo, andrò fuori. Anche se non posso girare tutto il mondo. Forse è più grande di quanto io immagini. Ma vedrò qualcosa. Sentirò la pioggia sul mio volto. La punta dei piedi nudi si contorcerà nella fredda sabbia bagnata. E il sole! Il sole, il sole! Abbronza la mia pelle!

Presumibilmente, gli studiosi viaggiano ancora per il mondo e visitano gli antichi luoghi, ma Michael non conosce nessuno che l’abbia fatto. Jason non è andato certamente, sebbene sia specializzato nel ventesimo secolo. Potrebbe visitare le rovine di New York, non è vero? Capire più intensamente come doveva essere. Naturalmente, Jason è Jason e non andrebbe neppure se potesse. Ma dovrebbe. Al posto suo io andrei. Era destino che trascorressimo tutta la vita all’interno di un solo edificio? Ha visto alcuni dei cubi di Jason che parlano dei vecchi giorni, le strade aperte, le macchine che si muovono, i piccoli edifici che ospitano una sola famiglia, tre o quattro persone. Incredibilmente strano. Irresistibilmente affascinante. Certamente, il sistema non funzionava; l’intera società che aveva ammucchiato ricchezze decadde. Noi dobbiamo avere qualcosa di meglio organizzato. Ma Michael comprende l’attrazione di quel genere di vita. Sente la forza centrifuga che lo spinge verso la libertà e vuole assaggiarne un poco. Non dobbiamo vivere nel modo in cui essi vissero, ma neppure dobbiamo, avere una vita di questo genere. Non per tutta la vita. Uscire. Provare l’orizzontalità, invece del su e giù. I nostri mille piani, le nostre Sale di Compimento Somatico, i nostri centri sonici, i nostri beneditori, i nostri ingegneri morali, i nostri consolatori, il nostro tutto. Ci dev’essere di più. Una breve visita all’esterno: la sensazione suprema della mia vita. Lo farò. Appeso al sistema di collegamento, dando serenamente dei colpetti allo spettro inferiore dei nodi mentre i suoi impulsi che recano istruzioni vengono a contatto con i suoi riflessi, egli promette a se stesso che non morirà senza avere realizzato il suo sogno. Andrà fuori. Un giorno o l’altro.