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Deve andarsene. Deve andarsene.

Si alza. Stacion si muove. «Ssst,» egli dice. «Dormi.»

«Vai a fare una passeggiata notturna?»

«Penso di sì,» egli dice. Si spoglia, si mette sotto la doccia. Poi indossa una tunica fresca, sandali, i suoi abiti più resistenti. Che cos’altro può prendere? Non possiede nulla. Se ne andrà così.

Bacia Stacion. Un bacio. Ancora un bacio. L’ultimo, forse. La sua mano indugia un attimo sul suo ventre. Lei avrà il messaggio domani mattina. Addio, addio. Ai bambini addormentati. Esce. Alza lo sguardo come se potesse vedere attraverso i cinquanta piani che si frappongono. Addio, Micaela. Cara. Sono le 2,30. Manca molto all’alba. Si muoverà lentamente. Esitante, studia le pareti che gli stanno intorno, la plastica scura dall’aspetto metallico con il colore del bronzo brunito. Un edificio robusto, ben progettato. Fiumi di cavi invisibili serpeggiano per il nucleo dei servizi. E quell’enorme mente vigilante costruita dall’uomo nel mezzo di ogni cosa. Ed è così facile ingannarla. Michael trova un terminal nel corridoio e notifica la sua identità. Michael Statler, 70441. Un lasciapassare di uscita, per favore. Certamente, signore. Eccolo. Dall’apertura esce un cerchietto azzurro scintillante per il suo polso. Lo infila. Imbocca il pozzo di discesa. Scende al 580° senza una particolare ragione. Boston. Bene, deve ammazzare il tempo. Si aggira per la sala come un visitatore proveniente da Venere, incontrando di quando in quando un passeggiatore notturno sulla via di casa. Com’è suo privilegio, apre alcune porte, scruta le persone all’interno, alcune addormentate, la maggior parte no. Una ragazza lo invita a dividere la sua piattaforma. Egli scuote il capo. «Sono solo di passaggio,» dice e si dirige verso il pozzo di discesa. Giù al 375°. San Francisco. Qui vivono gli artisti. Può udire della musica. Michael ha sempre invidiato gli abitanti di San Francisco. Hanno uno scopo nella vita. Hanno la loro arte. Anche qui apre delle porte.

«Avanti, venite,» vorrebbe dire, «ho un lasciapassare per l’uscita, sto andando fuori! Venite tutti con me, tutti!» Scultori, poeti, musicisti, drammaturghi. Sarà il pifferaio magico. Ma non è sicuro che il suo lasciapassare possa fare uscire dall’edificio più di una persona, e non dice nulla. Giù, invece. Birmingham. Pittsburgh, dove Jason lavora per ricuperare il passato irrecuperabile. Tokyo. Praga. Varsavia. Reykjavik. L’intero enorme edificio posa ora sul suo capo. Un migliaio di piani. 885.000 persone. Una dozzina di bambini è nata mentre egli si trova qui. Un’altra dozzina è stata concepita. Forse qualcuno sta morendo. E un uomo sta fuggendo. Dirà addio al computer? I suoi tubi e le sue spire, i suoi visceri riempiti di liquido, le sue tonnellate di scheletro. Un milione di occhi in ogni punto della città. Occhi che lo osservano, ma tutto è regolare: ha un lasciapassare.

Primo piano. Fuori.

È così facile. Ma dov’è l’uscita? Questa? Soltanto un minuscolo portello. Ma si aspettava un grande corridoio, pavimenti di onice, pilastri di alabastro, luci splendenti, ottoni lustri, una porta splendente di vetro oscillante. Certamente nessuna persona importante usa mai questa uscita. Gli alti dignitari viaggiano in aeronave e arrivano e partono dalla piattaforma di atterraggio al millesimo piano. E i carichi dei corrieri dei prodotti agricoli provenienti dalle comuni entrano nelle monurb molto profondamente nel sottosuolo. Forse trascorrono anni tra un passaggio e l’altro attraverso l’apertura del primo piano. Tuttavia andrà. Come farà? Solleva il suo lasciapassare per l’estero, sperando che nelle vicinanze vi siano degli analizzatori. Sì. Una luce rossa si accende sopra il portello, che si apre. Si apre. Esce, e si trova in un lungo freddo tunnel scarsamente illuminato. Il battente del portello si chiude dietro di lui. Sì, bene, previene le contaminazioni dell’area esterna, suppone. Attende, e una seconda porta gli si apre di fronte, stridendo un poco. Oltre la porta Michael non scorge nulla, soltanto tenebre, ma attraversa la porta e sente degli scalini, sette od otto: li scende e giunge senza aspettarselo all’ultimo. Un urto violento. E poi il suolo. Stranamente elastico, stranamente cedevole. Terra. Sporcizia. Immondizia. È fuori.

È fuori.

Si sente in qualche modo come il primo uomo che camminò sulla luna. Un passo barcollante, perché non sa che cosa aspettarsi. Tante sensazioni poco familiari da assorbire in una volta sola. Il portello si chiude dietro di lui. È solo, ma non ha paura. Deve concentrarsi su una cosa alla volta. L’aria, per prima. La inspira profondamente nella gola. Sì, ha un sapore diverso, più dolce, più vivo, un sapore naturale; l’aria sembra dilatarsi mentre la respira, scovando le pieghe e i meandri dei suoi polmoni. In un minuto, però, non riesce più ad isolare in essa fattori nuovi. È semplicemente aria, neutra, familiare. Come se l’avesse respirata per tutta la vita. Lo riempirà di batteri mortali? Egli proviene da un ambiente asettico, ermeticamente chiuso, dopo tutto. Fra un’ora, forse, giacerà al suolo pallido e gonfio nell’agonia finale. Oppure uno strano polline trasportato dalla brezza sta germogliando nelle sue narici. Zeppo di una quantità di funghi. Dimentica l’aria. Guarda in alto.

Manca ancora più di un’ora all’alba. Il cielo è color nero-azzurro; ci sono stelle dappertutto, e una luna crescente è alta nel cielo. Dalle finestre della monurb ha visto il cielo, ma mai in questo modo, il capo rovesciato all’indietro, le gambe divaricate, le braccia aperte. Un miliardo di lance di ghiaccio colpisce il suo corpo. Abbraccia la luce delle stelle. È tentato di denudarsi e di sdraiarsi nudo nella notte fino ad essere bruciato dalle stelle, bruciato dalla luna. Sorridendo, si allontana di altri dieci passi dalla monade. Allora getta lo sguardo indietro. Un pilastro di sale. Alto tre chilometri. È sospeso nell’aria come una massa vacillante e lo terrorizza; incomincia a contare i piani, ma lo sforzo gli dà il capogiro e smette prima di essere giunto al cinquantesimo. Da questo angolo la maggior parte dell’edificio gli rimane invisibile, poiché si alza così rapidamente sul suo capo, tuttavia quello che vede è abbastanza. La sua massa minaccia di schiacciarlo. Si allontana nella piazza coltivata a giardini. La massa terrorizzante di una monurb vicina appare di fronte a lui, a una distanza sufficiente a dargli un’immagine più precisa delle sue dimensioni. Quasi infila le stelle. Così grande, così grande! Tutte quelle finestre. E dietro di esse 850.000 persone, o più, che egli non ha mai incontrato. Bambini, passeggiatori notturni, controllori ai computer, consolatori, mogli, madri, un mondo intero lassù. Morto. Guarda verso sinistra. Un’altra monade, avvolta nei vapori del giorno che sorge. Alla sua destra, un’altra. Abbassa lo sguardo, più vicino alla terra. Il giardino. Sentieri formali. Questa è l’erba. Si inginocchia, strappa uno stelo, sente rimorso per un attimo mentre solleva il gambo verde nelle mani a coppa. Assassino. Mette l’erba in bocca; non è molto saporita. Aveva pensato che potesse essere dolce. Questo è sporco. Vi affonda la punta delle dita. Nero sotto le unghie. Traccia un solco attraverso un’aiuola di fiori. Fiuta un globo giallo di petali. Alza lo sguardo verso un albero. Appoggia le mani sulla corteccia.