Un robot giardiniere si muove attraverso la piazza potando, fertilizzando. Gira tutt’intorno sulla sua pesante base nera e lo scruta con espressione interrogativa. Michael solleva il polso e lascia che il giardiniere esamini il suo lasciapassare per l’esterno. Il robot perde il suo interesse per lui. Ora Michal è lontano da Monurb 116. Si volta di nuovo e la studia, e vede infine la sua altezza totale. È indistinguibile dalla 117 e dalla 115. Scrolla le spalle e segue un sentiero che lo porta fuori della linea sulla quale sono disposte le monadi. Una piscina: si accovaccia di fianco ad essa, immergendovi una mano. Poi appoggia il volto alla superficie e beve. Schizza l’acqua allegramente. L’alba ha cominciato a macchiare il cielo. Le stelle sono scomparse, la luna se ne sta andando. Si spoglia in fretta e si immerge lentamente nella piscina: fischia quando l’acqua gli arriva ai fianchi. Nuota attentamente, toccando il fondo con i piedi di tanto in tanto per sentire il freddo pavimento melmoso e infine giunge ad un punto in cui non tocca più. Canto di uccelli. Questo è il primo mattino del mondo. Una luce pallida scivola attraverso il cielo silenzioso. Dopo un po’ esce dall’acqua e rimane gocciolante e nudo sull’orlo della piscina, un poco tremante: ascolta gli uccelli, osserva il disco rosso del sole che sale ad oriente verso l’alto. A poco a poco si accorge di stare piangendo. La bellezza del momento. La solitudine. È solo ai primi tempi del mondo. È giusto che sia nudo; sono Adamo. Si tocca i genitali. Guardando lontano, vede tre monurb risplendere di luce perlacea e si chiede quale sia la 116. Stacion è là, e anche Micaela. Se soltanto fosse con me adesso. Entrambi nudi vicino a questa piscina. E volgermi verso di lei, e affondare dentro di lei. Mentre il serpente guarda dall’albero. Ride. Dio benedica. È solo, la cosa non lo impaurisce per nulla, nessuno è in vista e questo gli piace, per quanto gli manchino Micaela, Stacion, entrambe, ciascuna. Trema. Prova un acuto desiderio. Si lascia cadere sulla nera terra umida accanto allo stagno. Piange ancora un poco, calde lacrime colano lungo il suo volto di quando in quando, ed egli osserva come il cielo diventi azzurro e appoggia la mano su se stesso e si morde un labbro: richiama alla mente la visione di Capri, il vino, il ragazzo, la capra, i baci, Micaela, loro due nudi all’alba, ed egli ansima quando esce il suo seme. Fertilizza la nuda terra. Duecento milioni di piccoli non nati in quella chiazza viscida. Nuota di nuovo; poi si rimette in cammino, portando gli abiti sul braccio, e dopo forse un’ora li indossa, temendo il bacio del sole che sale nel cielo sulla sua tenera pelle abituata al chiuso.
Verso mezzogiorno, piazze e stagni sono molto lontani dietro di lui ed è entrato nel territorio periferico di una delle comuni agricole. Qui il mondo è ampio e piatto, e le lontane monadi urbane sono lucenti punte brune all’orizzonte che si allontanano da est verso ovest. Non ci sono alberi. Non vi è affatto vegetazione selvatica incolta, niente della vegetazione caotica che era così attraente in quel documentario su Capri. Michael vede lunghe file di piante basse, separate da strisce di nuda terra bruna, e qua e là un intero campo, enorme, completamente vuoto, come se fosse in attesa della semina. Questi devono essere i campi di ortaggi. Esamina le piante: migliaia di cose sferiche e attorcigliate che si afferrano l’un l’altra, e migliaia di cose verticali ed erbose, con barbe ciondolanti, e migliaia di un altro genere, e di un altro, e di un altro ancora. Mentre cammina lungo i campi, i raccolti continuano a cambiare. Questi sono cereali? Fave? Meloni? Carote? Frumento? Non ha modo di accordare il prodotto con la sua denominazione. Le lezioni di botanica della sua infanzia sono sbiadite e cancellate; tutto quello che può fare è supporre, e probabilmente formulare ipotesi sbagliate. Stacca, foglie da questa pianta e da questa e da questa. Assaggia germogli e baccelli. I sandali in mano, cammina a piedi nudi attraverso le zolle voluttuose di terra vangata.
Pensa di essere diretto ad est. Di andare verso il luogo dal quale è sorto il sole. Ma ora che il sole è alto sul suo capo è difficile determinare delle direzioni. La fila delle monurb che va rimpicciolendosi non è di alcun aiuto. Quanto è lontano il mare? Al pensiero di una spiaggia i suoi occhi si inumidiscono di nuovo. I frangenti che si sollevano. Il sapore del sale. Un migliaio di chilometri? Quant’è grande questa distanza? Appoggia mentalmente a terra su un fianco una monurb, poi un’altra, appoggiandola alla sommità della prima, poi un’altra oltre quella. Occorreranno 333 monurb, una di seguito all’altra, per raggiungere il mare di qui, se ora sono distante dal mare mille chilometri. Il cuore gli manca. Ed egli non ha un’idea reale delle distanze. Potrebbero essere diecimila chilometri. Immagina che cosa vorrebbe dire camminare da Reykjavik a Louisville per 333 volte anche orizzontalmente. Ma con la pazienza può farlo. Queste foglie, questi steli, questi baccelli non gli giovano. Qual è la parte commestibile della pianta, in ogni modo? Deve farla cuocere? Come? Questo viaggio sarà più complesso di quanto immaginasse. Ma la sola alternativa è quella di ritornare alla monurb, ed egli non lo farà. Sarebbe come morire senza avere mai vissuto. Continua ad andare avanti.
È stanco. Delira un po’ per la fame, perché ora si trova in viaggio da sei o sette ore. Fatica fisica, anche. Questa camminata orizzontale deve mettere in azione muscoli diversi. Andare su e giù lungo le scale è facile; spostarsi per mezzo del pozzo di salita e di discesa è ancora più facile; e le brevi passeggiate orizzontali lungo i corridoi non l’hanno preparato a questa fatica. Il dolore dietro le cosce. L’irritazione alle caviglie, come se un osso strisciasse contro l’altro. E le spalle si sforzano di sostenere il capo. Il trascinarsi per questa superficie terrosa irregolare moltiplica i problemi. Si riposa un attimo. Poco dopo giunge a un corso d’acqua, una specie di fossato, che scorre attraverso i campi; beve, poi si spoglia e si bagna: l’acqua fresca lo rianima. Riprende il cammino, fermandosi per tre volte ad esaminare le messi non ancora mature. Morire di fame in mezzo a questa abbondanza di verde? No. Se la caverà.
Anche la solitudine comincia a sconvolgerlo. Questa è una sorpresa. Nella monade era frequentemente irritato dalle considerevoli masse ondeggianti. Bambini sotto i piedi dappertutto, gruppi di donne nelle sale, una cosa di questo genere. Apprezzava, in modo chiaramente indegno di benedizione, le ore della giornata trascorse al sistema di collegamento nell’oscurità, senza nessun altro intorno che i nove compagni di squadra, e anch’essi erano lontani, occupati con i loro nodi. Nutrire per anni la speranza di evadere nella privacy, la sua crudele retrograda fantasia di solitudine. Ora ce l’ha, e per questo all’inizio ha pianto semplicemente di gioia, ma nel pomeriggio la cosa non sembra più così affascinante. Si sorprende a lanciare piccole occhiate al limite del suo campo visivo, come se potesse cogliere l’emanazione del passaggio di un essere umano. Forse se Micaela fosse venuta con lui sarebbe stato meglio. Adamo, Eva. Ma certamente non sarebbe venuta. È soltanto la sua sorella gemella; non ha esattamente i suoi stessi geni; è insoddisfatta ma non avrebbe mai fatto una cosa avventata come questa. Se la raffigura mentre cammina faticosamente accanto a lui. Sì. Ed egli si ferma di tanto in tanto per prenderla tra le messi verdi. Ma la solitudine si sta impadronendo di lui.
Urla. Chiama il suo nome, quello di Micaela, quello di Stacion. Grida il nome dei suoi bambini. «Sono un cittadino di Edimburgo!» urla con rabbia. «Monade Urbana 116! 704° piano!» I suoni fluttuano via verso il cielo a pecorelle. Com’è bello il cielo, ora, azzurro e oro e bianco.