Da nord gli giunge il suono improvviso di un ronzio — nord? — e si fa più forte di momento in momento. Si è attirato addosso qualche mostro facendo chiasso? Si ripara gli occhi. Eccolo: un lungo tubo nero che avanza verso di lui librato ad una altezza, forse, di un centinaio di metri, al massimo. Si getta al suolo, si raggomitola tra le file di cavoli o rape, o di qualsiasi altra cosa. La cosa nera ha una dozzina di becchi tozzi che sporgono ai lati e da ciascun becco esce un vapore grigio nebuloso. Michael capisce. Stanno vaporizzando il raccolto, probabilmente. Un veleno per uccidere gli insetti ed altri flagelli. Che cosa potrà farmi? Si rannicchia, le ginocchia contro il petto, le mani sul volto, gli occhi chiusi, la bocca affondata nel palmo della mano. Quel terribile rumore sopra il capo. Se non mi ucciderete con il vostro sporco spruzzo mi ucciderete con i decibel. L’intensità del suono diminuisce. La cosa è passata oltre. Il pesticida sta scendendo lentamente, egli pensa, mentre cerca di non respirare, le labbra serrate. Dal cielo cadono petali ardenti. Fiori di morte. Eccola, ora, una leggera umidità sulle guance, un velo bagnato che aderisce alla pelle. In quanto tempo lo ucciderà? Conta i minuti che passano. La cosa volante non è più a portata del suo udito. Con cautela, apre gli occhi e si alza. Forse non c’era pericolo, allora; ma egli corre attraverso i campi verso il nastro scintillante di un corso d’acqua e vi si immerge, scorticandosi per il panico, per ripulirsi energicamente. E soltanto quando esce capisce che anche il corso d’acqua deve essere stato vaporizzato. Bene, non è ancora morto, in ogni modo.
Quant’è lontana la comune più vicina?
In qualche modo, nella loro infinita saggezza, i progettisti di questa fattoria hanno risparmiato una collina. Quando vi sale sopra, nel pomeriggio, Michael fa l’inventario. Ci sono le monadi urbane, curiosamente rimpicciolite. Ci sono i campi coltivati. Vede alcune macchine, ora, che si muovono in alcuni filari, cose con molte braccia; stanno forse sradicando le erbacce. Non c’è alcuna traccia di insediamenti umani, però. Scende dalla collina e dopo poco incontra una delle machine agricole. È la prima compagnia che abbia in tutto il giorno. «Salve. Sono Michael Statler, di Monurb 116. Come ti chiami, macchina? Che genere di lavoro fai?»
Biechi occhi gialli lo scrutano e si volgono altrove. La macchina sta sarchiando alla base ogni pianta del filare. Schizza qualcosa di latteo sulle radici. Una sporca cosa ostile, non è vero? O soltanto non è stata programmata per parlare. «Non me ne importa,» dice. «Il silenzio è d’oro. Però, se soltanto potessi dirmi dove trovare qualcosa da mangiare! O trovare qualcuno.»
Di nuovo il suono ronzante. Diamine! Un altro puzzolente vaporizzatore per il raccolto! Si getta a terra, pronto a rannicchiarsi di nuovo: ma no, questa cosa non spruzza, e neppure passa oltre. Compie uno stretto cerchio volando sopra il suo capo e facendo un baccano infernale; un portello si apre nel suo ventre. Ne cade una doppia fune di una bella fibra d’oro che tocca il suolo. Scivola giù, a cavallo di un gancio, un essere umano, una donna, seguita da un uomo. Atterrano abilmente e si dirigono verso di lui. Volti truci. Occhi piccoli e lucenti. Armi alla cintola. Indossano soltanto un lucente drappo rosso che li copre dalle cosce al ventre. La loro pelle è abbronzata, i corpi sono snelli. L’uomo ha un’ispida e folta barba nera: incredibili, grotteschi peli sul volto! I seni della donna sono piccoli e duri. Ora entrambi estraggono le armi. «Salve!» grida raucamente Michael. «Vengo da una monurb! Voglio soltanto visitare il vostro paese. Amico! Amico! Amico!»
La donna dice qualcosa di incomprensibile.
Egli si stringe nelle spalle. «Mi spiace. Non capi…»
L’arma preme contro le sue costole. Com’è freddo il volto della donna! Gli occhi sono come bottoni di ghiaccio. Lo uccideranno? Ora parla l’uomo. Lentamente, chiaramente, a voce molto alta, come si parlerebbe a un bambino di tre anni. Ogni sillaba è una sillaba sconosciuta. Lo accusa di avere oltrepassato il confine dei campi, probabilmente. Una delle macchine agricole deve avere segnalato la sua presenza alla comune. Michael fa segno col dito; le monurb sono ancora visibili di qui. Le indica e si batte il petto. Per quello che potrà servire. Essi devono sapere di dove egli proviene. Il suo catturatore annuisce, senza sorridere. Una coppia glaciale. Arrestato. Un intruso che minaccia la santità dei campi. La donna lo prende per il gomito. Bene, almeno non lo uccidono su due piedi. Lo guidano verso le funi di fibra penzolanti. La donna si è accomodata sul gancio. Sale a bordo. Poi l’uomo dice a Michael qualcosa che egli sospetta significhi «Ora tocca a te.» Michael sorride. Cooperare è la sua sola speranza. Calcola come salire sul gancio; l’uomo glielo sistema allacciandolo ed egli sale. La donna ,che aspetta a bordo, lo fa uscire e lo spinge in una intelaiatura di rete. Tiene l’arma puntata. Un attimo dopo anche l’uomo è a bordo; il bortello si chiude e la macchina volante si allontana rombando. Durante il volo lo interrogano entrambi, rivolgendogli brevi esplosioni improvvise di parole, ma egli può soltanto rispondere scusandosi: «Non parlo la vostra lingua. Come posso dirvi quello che volete sapere?»
Alcuni minuti più tardi la macchina atterra. Lo spingono fuori fino a una spianata color bruno-rossastro. Lungo i bordi vede bassi edifici di mattoni con tetti piani, strani veicoli grigi dal muso rincagnato, parecchie macchine agricole con molte braccia, e dozzine di uomini e donne che indossano le lucenti fasce rosse sui fianchi. Non molti bambini; forse sono a scuola, sebbene la giornata sia già molto inoltrata. Tutti lo segnano a dito. Parlano rapidamente. Aspri commenti incomprensibili. È un po’ spaventato, non tanto per la possibilità di essere in pericolo quanto per la stranezza di ogni cosa. Sa che questa dev’essere una comune agricola. Tutto il camminare che ha fatto nella giornata è stato il preludio; ora è davvero passato da un mondo a un altro.
L’uomo e la donna che l’hanno catturato lo spingono per lo spiazzo vuoto attraverso la folla della gente della fattoria in uno degli edifici più vicini. Mentre passa, gli agricoltori toccano con le dita i suoi abiti, toccano le sue braccia nude e il suo volto, mormorano sommessamente. Sono stupefatti. Come se un uomo fosse giunto da Marte in mezzo a loro. L’edificio è scarsamente illuminato, costruito con tecnica grossolana, le pareti storte, i soffitti bassi, i pavimenti sconnessi di una pallida materia plastica corrosa. É gettato in una camera nuda, tetra, satura di un odore aspro: vomito? Prima di lasciarlo, la donna gli indica le comodità con pochi gesti bruschi. Di qui può prendere acqua; è un catino di una sostanza bianca artificiale con la struttura di pietra liscia, ingiallito e screpolato in alcuni punti. Non c’è piattaforma-letto, ma probabilmente si vuole che usi il mucchio di coperte gualcite contro una parete. Non c’è traccia di doccia. Per evacuare ha un solo apparecchio, con un bottone da premere quando si desidera svuotarlo: niente più di una specie di imbuto di plastica che penetra nel pavimento. Evidentemente serve sia per le feci che per l’orina. Un vecchio dispositivo; ma capisce che qui non hanno bisogno di riciclare i rifiuti. La camera non ha una fonte di luce artificiale. Attraverso la sua sola finestra entra l’ultimo debole sole del pomeriggio. La finestra si affaccia sulla piazza dove gli agricoltori sono ancora riuniti e discutono su di lui; li vede far segno col dito, annuire, darsi gomitate l’un l’altro. Alla finestra sono infisse sbarre di metallo, poste troppo vicine l’una all’altra per permettere a un uomo di scivolare attraverso di esse. La cella di una prigione, allora. Controlla la porta. Chiusa a chiave. Come sono amichevoli. In questo modo non raggiungerà mai la riva del mare.