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«Oh, no.» Artha ride. «Il bambino di Milcha è del tutto legittimo.»

«Allora perché — tormentarla in quel modo — avrebbe potuto perdere il bambino…»

«Qualcuno doveva farlo,» gli dice Artha. «La comune ha sette donne incinte, proprio ora. Tirarono a sorte e Milche perdette. O vinse. Non è una punizione, Satler. È una cosa religiosa: ella è il celebrante, il sacro capo espiatorio, il… il… non conosco la parola nella vostra lingua. Attraverso la sua sofferenza porta salute e prosperità alla comune, assicurando che bambini non voluti non vengano nelle nostre donne, che tutto rimanga in perfetto equilibrio. Certamente, è doloroso per lei. E c’è la vergogna di rimanere nuda davanti a tutti. Ma si doveva fare. È un grande onore. Milcha non dovrà mai ripeterlo e godrà di certi privilegi per il resto della sua vita, e certamente tutti le siamo grati per avere accettato i nostri colpi. Ora siamo protetti per un altro anno.»

«Protetti?»

«Contro la collera degli dei.»

«Dei,» egli dice tranquillamente. Inghiottendo la parola e tentando di comprenderla. Dopo un istante chiede: «Perché cercate di evitare di avere bambini?»

«Pensi che possediamo il mondo?» ella risponde, gli occhi improvvisamente fiammeggianti. «Abbiamo la nostra comune. La zona di territorio che ci è stata assegnata. Dobbiamo produrre cibo per noi e per le monurb, giusto? Che cosa accadrebbe se noi procreassimo e procreassimo e procreassimo semplicemente, finché il nostro villaggio si estendesse su metà dei campi che ci sono ora, e così il cibo prodotto fosse appena sufficiente per le nostre necessità? E non rimanesse nulla da risparmiare per voi? I bambini devono avere una casa. Le case occupano terreno. Come potremmo coltivare il terreno coperto da una casa? Dobbiamo fissare dei limiti.»

«Ma non avete bisogno di espandere nei campi il vostro villaggio. Potete costruire verso l’alto. Come facciamo noi. Decuplicare il vostro numero senza occupare una maggiore area di terreno. Bene, certamente avrete bisogno di una maggiore quantità di cibo e ne resterebbe meno da spedire a noi, questo è vero, ma…»

«Non capisco assolutamente,» sbotta Artha. «Dovremmo trasformare una comune in una monade urbana? Voi avete il vostro sistema di vita; noi abbiamo il nostro. Il nostro sistema richiede che siamo pochi di numero e viviamo in mezzo a fertili campi. Perché dovremmo diventare come voi? Noi ci vantiamo di non essere come voi. Così se ci espandiamo, dobbiamo espanderci orizzontalmente, giusto? Questo col tempo coprirebbe la superficie del mondo con una crosta morta di vie lastricate e di strade, come nei tempi antichi. No. Siamo oltre simili cose. Ci imponiamo dei limiti e viviamo secondo il ritmo più adatto al nostro sistema, e siamo felici. E vivremo sempre così. Ti sembra tanto peccaminoso? Noi riteniamo peccaminosa la gente delle monadi, perché non controlla le nascite. Anzi, le incoraggia.»

«Non è necessario che le controlliamo,» egli le dice. «È stato matematicamente provato che non abbiamo cominciato ad esaurire le possibilità del pianeta. La nostra popolazione potrebbe raddoppiare o anche triplicare, e finché continuassimo a vivere in città verticali, in monadi urbane, ci dovrebbe essere una camera per tutti, senza invadere il terreno produttivo. A distanza di pochi anni costruiamo una nuova monurb, e anche così le scorte di cibo non diminuiscono, il ritmo del nostro sistema di vita si eleva, e…»

«Pensate di poter continuare indefinitamente?»

«Ebbene, no, non all’infinito,» concede Michael. «Ma per lungo tempo. Cinquecento anni, forse, al tasso attuale di incremento, prima di avvertire qualche pressione.»

«E poi?»

«Potranno risolvere il problema a suo tempo.»

Artha scuote il capo con furia. «No! No! Come puoi dire una cosa simile? Continuare a riprodursi, lasciando al futuro la preoccupazione…»

«Guarda,» egli dice, «ho parlato con mio cognato, che è uno storico. Specializzato nel ventesimo secolo. A quel tempo si credeva che tutti avrebbero sofferto la fame se la popolazione mondiale avesse superato i cinque o i sei miliardi. Si parlava molto di una crisi della popolazione, eccetera eccetera. Bene, venne il collasso, e in seguito le cose vennero riorganizzate, furono costruite le prime monadi, il vecchio modello urbanistico orizzontale fu proibito, e indovina che cosà? Trovammo che c’era posto per dieci miliardi di individui. E poi per venti. E poi per trenta. Ed ora per settantacinque. Edifici più alti, una più efficiente produzione di cibo, una più forte concentrazione della popolazione nel territorio improduttivo. Così, chi siamo per dire che i nostri discendenti non continueranno a far fronte a una popolazione in espansione, fino a cinquecento miliardi, mille miliardi, chissà? Il ventesimo secolo non avrebbe creduto che fosse possibile sostenere tanti abitanti sulla terra. Se ci preoccupassimo in anticipo per un problema che in realtà potrà non causare mai alcuna difficoltà, se in modo indegno di benedizione ci opponiamo a dio limitando le nascite, pecchiamo contro la vita senza alcuna sicurezza che…»

«Puh! Non ci capirete mai. E suppongo che noi non vi capiremo mai.» Si alza e si dirige rapidamente verso la porta. «Dimmi questo, allora: se è così meraviglioso il sistema di vivere della monurb, perché sei sgusciato via e sei uscito per vagabondare nei nostri campi?» E non rimane per ascoltare una risposta. La porta si chiude dietro di lei con un suono secco; egli va verso di essa e trova che lei l’ha chiusa a chiave. È solo. E ancora prigioniero.

Un lungo giorno monotono. Nessuno viene da lui, eccetto la ragazza che porta la colazione: entra ed esce. Il tanfo della cella lo opprime. La mancanza della doccia diventa insopportabile; immagina che lo sporco che si deposita sulla sua pelle stia butterandola e corrodendola. Dalla stretta finestra osserva la vita della comune e allunga il collo per vedere tutto. Le macchine agricole che vanno e vengono. I contadini rugosi caricano sacchi di prodotti a bordo di un trasportatore a cinghia che scompare nel sottosuolo, si dirige, senza dubbio, al sistema di container che porta il cibo alle monurb e prodotti industriali alle comuni. Il capro espiatorio della notte precedente, Milcha, passa vicino a lui, zoppicando, contusa, apparentemente dispensata dal lavoro per la giornata di oggi; i contadini la salutano con evidente rispetto. Ella sorride e si accarezza il ventre. Non vede affatto Artha. Perché non lo mettono in libertà? È assolutamente sicuro di averla convinta di non essere una spia. E in ogni caso difficilmente può nuocere alla comune. Tuttavia rimane qui mentre il pomeriggio finisce. La gente di fuori è indaffarata, sudata, abbronzata dal sole, tenace. Vede soltanto una piccola parte della comune: fuori della portata della sua vista devono esserci scuole, negozi e botteghe di riparazioni. Immagini della danza della non-nascita si agitano morbosamente nella sua memoria. La barbarie, la musica selvaggia, il dolore della donna. Ma egli sa che è un errore ritenere primitivi e gente semplice questi contadini, nonostante simili episodi. Essi gli appaiono strani, ma la loro barbarie è soltanto superficiale, una maschera che indossano per porsi in disparte dalla gente della città. Questa è una società complessa mantenuta in delicato equilibrio. Senza dubbio da qualche parte si trova un centro calcolatore, che controlla la semina e la cura e la mietitura delle messi, e richiede un personale di tecnici esperti. Necessità biologiche da considerare: i pestidici, l’eliminazione delle erbacce, tutte le complicazioni ecologiche. Il problema del sistema di baratto che lega la comune alla monade urbana. Capisce di vedere questo posto soltanto in modo superficiale.

Nel tardo pomeriggio Artha ritorna nella sua cella.

«Mi lasceranno andare presto?»

Ella scuote il capo. «Ne stanno discutendo. Io ho raccomandato la tua liberazione, ma alcuni di loro sono molto sospettosi.»

«A chi alludi?»