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«Ho un lasciapassare,» egli dice, incerto. «È tutto perfettamente legale. Potete controllare le registrazioni. Io…»

«Sei in arresto. Alterazione di programma, illecito abbandono dell’edificio, indesiderabile accettazione di tendenze asociali: Ordine di immobilizzarti immediatamente al tuo ritorno all’edificio. Ora dobbiamo eseguire. Segue la sentenza ingiuntiva di soppressione.»

«Aspettate un minuto. Ho diritto di appello, non è vero? Chiedo di vedere…»

«Il caso è già stato esaminato e affidato a noi per la disposizione finale.» Una nota di inesorabilità nella voce del poliziotto. Sono al suo fianco, ora. Non può muoversi. Chiuso ermeticamente all’interno della schiuma che si sta indurendo. Qualsiasi microrganismo estraneo abbia raccolto è rinchiuso in esso con lui. Allo scarico? No. No. Per favore. Ma che altro si aspettava? Quale altro risultato poteva avere la sua evasione? Aveva pensato di aver ingannato la monurb? Potete respingere un’intera civiltà e sperare di rientrarvi furtivamente con facilità? Lo hanno caricato su una specie di carrello. Forme confuse fuori del bozzolo. «Incidiamolo dettagliatamente sulla registrazione, ragazzi. Muovetelo verso gli analizzatori. Sì. Va bene.»

«Posso vedere mia moglie, almeno? Mia sorella? Voglio dire, quale danno farò se potrò parlare soltanto un’ultima volta con loro…»

«Minaccia all’armonia e alla stabilità, pericolose tendenze asociali, immediato allontanamento dall’ambiente per prevenire la diffusione di forme reattive.» Come se portasse una pestilenza di ribellione. Ha già visto questo spettacolo in precedenza: il giudizio sommario, l’esecuzione immediata. E non ha mai capito, in realtà. E non avrebbe mai immaginato.

Micaela. Stacion. Artha.

Ora il bozzolo è completamente indurito. Non vede più nulla fuori di esso.

«Ascoltatemi,» dice. «Qualsiasi cosa stiate per fare, voglio che sappiate che sono stato là. Ho visto il sole e la luna e le stelle. Non era Gerusalemme, non era il Taj Mahal, ma era qualcosa. Che voi non vedrete mai. Che non vedrete mai. Le possibilità, là fuori. La speranza di dilatare la vostra anima. Che cosa capireste di questo?»

Suoni ronzanti dalla lontana parte esterna della tela lattea che lo avvolge. Gli stanno leggendo le parti del codice legale relative al suo caso. Spiegano come egli minacci la struttura della società. È necessario sradicare la fonte di pericolo. Le parole si mescolano e si confondono e vanno perdute per lui. Il carrello comincia a scorrere di nuovo in ayanti.

Micaela. Stacion. Artha.

Vi amo.

«Bene, aprite lo scarico.» Chiaro, inequivocabile, esplicito. Ode il flusso della marea. Sente lo strepito delle onde contro le morbide sabbie splendenti. Assaggia l’acqua salata. Il sole è alto, il cielo è ardente, un azzurro perfetto. Non ha rimpianti. Non gli sarebbe mai più stato possibile lasciare l’edificio; se essi l’avessero lasciato vivere, sarebbe soltanto stato a condizione che egli fosse sottoposto a una costante sorveglianza. Gli innumerevoli occhi che scrutano nella monurb. Una intera vita trascorsa appeso al sistema di collegamento. Per quale scopo? Così è meglio. Aver vissuto un attimo, soltanto una volta. Aver visto. La danza, il falò, il profumo delle cose che crescono. Ed ora è così stanco. Il riposo sarà benvenuto. Avverte una sensazione di movimento. Stanno di nuovo spingendo il carrello. Dentro, e poi giù. Addio. Addio. Addio. Scende con calma. Nella sua mente le scogliere di Capri coperte di foglie, il ragazzo, la capra, il fiasco di freddo vino dorato. Nebbia e delfini, spine e ciottoli. Dio benedica! Ride all’interno del bozzolo. Precipita. Addio. Addio Micaela. Stacion. Artha. Gli appare alla mente un’ultima visione dell’edificio, i suoi 885.000 abitanti dai volti senza espressione che si muovono su e giù nei pozzi di trasporto, si pigiano nei Centri Sonici e nei Saloni di Compimento Somatico, e inviano una miriade di messaggi lungo i nodi di comunicazione chiedendo cibo, parlandosi l’un l’altro, fissando appuntamenti, trattando affari. Si riproducono. Siate fertili e moltiplicatevi. Centinaia di migliaia di persone percorrono orbite che si intersecano, ciascuno compie il suo piccolo circuito all’interno della torre imponente. Com’è bello il mondo, e tutto quello che si trova in esso. La monade urbana al sorgere del sole. I campi dei contadini. Addio.

Tenebre.

Il viaggio è finito. La fonte di pericolo è stata estirpata. La monurb ha preso le necessarie misure protettive e un nemico della civiltà è stato eliminato.

CAPITOLO SETTIMO

Questo è il fondo. Siegmund Kluver si aggira a disagio tra i generatori. Il peso dell’edificio preme su di lui in modo schiacciante. Il canto lamentoso delle turbine lo disturba. Si sente disorientato, un vagabondo nelle profondità. Quant’è enorme questo locale: un’immensa scatola situata molto al di sotto del suolo, così grande che i globi dell’illuminazione appesi al soffitto riescono a stento a illuminare il lontano pavimento di calcestruzzo. Siegmund cammina lentamente lungo una passerella a mezz’altezza tra il pavimento e il soffitto. La sontuosa Louisville si trova tre chilometri al di sopra del suo capo. Tappeti e tendaggi, intarsi di legni rari, gli ornamenti del potere, ora sono molto lontani di qui. Non intendeva venire qui, non in questo lontano sotterraneo. Era Varsavia la destinazione che si era proposta questa sera. Ma in qualche modo è venuto prima qui. Indugia per qualche tempo. Siegmund è spaventato. Cerca una scusa per non farlo. Se soltanto sapessero. La viltà che è dentro di lui. Che non assomiglia a Siegmund.

Strofina le mani sulla ringhiera della passerella. Metallo freddo, dita incerte. Qui si ode un rimbombo costante che vibra attraverso l’edificio. Non è lontano dall’estremità degli scarichi che convogliano i rifiuti solidi all’impianto generatore di energia: scarti di ogni genere, vecchi abiti, cubi di dati usati, carta da pacco e imballaggi, i corpi dei morti, di quando in quando i corpi dei vivi, che scorrono verso il basso percorrendo gli scivoli a spirale e cadono nei compattori. Ed entrano poi su nastri trasportatori nelle camere di combustione. La liberazione di calore per la produzione di elettricità: non sprecare nulla. A quest’ora il carico elettrico è notevole. Ogni appartamento è illuminato. Siegmund chiude gli occhi e ha la visione degli 885.000 abitanti di Monade Urbana 116 avvolti in un enorme viluppo di fili. Un gigantesco quadro umano di controllo. E io non sono più inserito dentro di esso. Perché non lo sono più? Che cosa mi è accaduto? Che mi accade? Che cosa sta per accadermi?

Si muove pigramente lungo la passerella ed esce dalla camera di produzione. Entra in una galleria dalle pareti levigate; dietro i suoi fianchi rivestiti di pannelli lucidi, lo sa, corrono le linee di trasmissione lungo le quali l’energia scorre verso i circuiti che regolano la sovralimentazione. E qui si trova l’impianto di riprocedimento: condotti per l’orina, camere di riconversione delle feci. Tutta la meravigliosa struttura per mezzo della quale la monade vive. Non si vede alcun altro essere umano. Il grave peso della solitudine. Siegmund trema. Deve salire presto a Varsavia. Tuttavia continua a vagare senza meta come uno scolaro in visita attraverso il centro dei servizi al piano più basso della monurb. Qui si nasconde a se stesso. I freddi occhi degli analizzatori elettronici lo fissano da centinaia di aperture schermate poste nei pavimenti e nelle pareti e nei soffitti. Sono Siegmund Kluver di Shanghai, 787° piano. Ho quindici anni e cinque mesi. Mia moglie si chiama Mamelon, mio figlio è Janus, mia figlia Persephone. Mi sono state affidate le mansioni di consulente al nexus di accesso di Louisville ed entro i prossimi dodici mesi senza dubbio mi verrà annunciata la mia promozione ai più alti gradi amministrativi di questa monade urbana. Sono Siegmund Kluver di Shanghai, 787° piano. Si inchina agli analizzatori. Tutti lo salutano. Il futuro capo. Si passa nervosamente la mano sui ruvidi capelli folti. Per un’ora ha vagato quaggiù. Dovresti salire. Di che cosa hai paura? A Varsavia. A Varsavia.