Qualcosa si mosse, su un ramo, ma scomparve quando Jason si avvicinò camminando stancamente. Le piante che circondavano un enorme tronco non sembravano velenose, e Jason vi si appoggiò, rilassandosi per un attimo contro la corteccia ruvida.
Un corpo estraneo, morbido e soffocante, gli cadde addosso; si sentì afferrare in una stretta d’acciaio. Tentò di dibattersi ma la forza che l’avvinceva aumentò sentì che il sangue gli tuonava nelle orecchie, e gli mancava il fiato.
Soltanto quando Jason si afflosciò inerte la pressione cessò. Il suo terrore diminuì un poco, quando capì che non era stato un animale, ad attaccarlo. Non aveva mai visto un grubber; ma sembravano uomini, e ciò gli lasciava qualche probabilità di salvezza.
Gli legarono braccia e gambe, strappandogli il fodero dell’arma. Si sentì nudo, in modo strano, senza la pistola. Poi, mani robuste lo afferrarono di nuovo, e si sentì gettare in aria, per ricadere sul ventre, attraverso un corpo morbido e tiepido. Il terrore lo invase di nuovo: si trattava questa volta di un grosso animale. Tutti gli animali, a Pyrrus, davano la morte.
Ma quando l’animale cominciò a camminare, trasportandolo, il panico fu sostituito da una sensazione di sollievo crescente. I grubbers erano riusciti a concludere una tregua almeno con una forma di vita animale. Doveva scoprire come! Se fosse riuscito a portare quel segreto ai coloni, avrebbe ripagato tutte le sue sofferenze. Forse anche la morte di Wolf, se la guerra poteva essere conclusa.
Le membra, legate, gli dolevano forte, in principio, ma si intorpidirono, quando la circolazione diminuì. Il viaggio, pieno di scosse, continuò; perse la sensazione del tempo. Uno scroscio di pioggia lo infradiciò, poi sentì che i suoi abiti fumavano, quando ricomparve il sole.
Il viaggio, infine, si concluse. Fu strappato dalla groppa dell’animale e lo lasciarono cadere a terra. Si trovò le braccia libere appena qualcuno allentò i legami. La circolazione riprese dolorosamente; quando le mani gli obbedirono, le alzò sulla faccia, togliendosi il sacchetto di pelliccia che sino a quel momento gli aveva impedito di vedere. La luce lo accecò, mentre i suoi polmoni aspiravano aria fresca a grandi boccate.
Battendo le palpebre, si guardò attorno. Era sdraiato su un pavimento di tavole grezze, e il sole al tramonto gli illuminava la faccia penetrando dalle aperture, prive di porta, della baracca. All’esterno, c’era un campo arato, che si stendeva per la collina sino al limite della giungla. Nella baracca, era troppo scuro per poter vedere molto.
Qualcosa interruppe il raggio di luce sulla soglia: un uomo, con i capelli lunghi e una barba folta. Era coperto di pellicce; anche le gambe erano avvolte di pelo. Fissava il prigioniero, mentre con una mano carezzava il manico di un’ascia che aveva alla cintura.
— Chi siete? Cosa volete? — domandò a un tratto.
Jason scelse con cautela le parole, chiedendosi se quel selvaggio fosse tanto pronto a entrare in collera, come i coloni.
— Mi chiamo Jason. Vengo in pace. Voglio essere vostro amico.
— Menzogne — gridò l’uomo, estraendo l’ascia dalla cintura. — Ho visto che vi nascondevate. Mi aspettavate, per uccidermi. Ma io vi farò fuori prima! — Provò il filo dell’ascia, poi l’alzò.
— Un momento! — gridò Jason in tono disperato. — Non capite!
L’ascia si abbassò, sibilando.
— Sono arrivato da un altro pianeta, e…
Il tonfo dell’arma che urtava il tavolato lo riscosse. All’ultimo momento, il grubber aveva deviato il colpo. Afferrò Jason per il vestito e lo sollevò di peso, sin quando i loro volti si toccarono.
— È vero? — urlò. — Venite da un altro pianeta? — Aperse la mano, e Jason ricadde, prima di poter rispondere. Il selvaggio lo superò con un salto, correndo verso il fondo in penombra della baracca.
— Devo informare subito Rhes — esclamò, mentre tastava la parete. Un fiotto di luce inondò il locale.
Jason guardò, sbalordito. Il selvaggio coperto di pellicce metteva in funzione un apparecchio radio.
Era privo di sensi. Chi stava chiamando, il grubber? Gli apparecchi radio dovevano essere almeno due. Rhes era una persona, o un dio, una cosa, un mostro?
Si dominò con uno sforzo. La situazione presentava sviluppi imprevisti.
Si disse che sarebbe bastato conoscere i fatti per capire. Chiuse gli occhi.
— Alzatevi — gli ordinò la voce del grubber. — Dobbiamo andare.
Aveva le gambe ancora intorpidite. L’uomo barbuto fece una smorfia di disgusto e lo tirò in piedi, appoggiandolo alla parete. Jason si sostenne alle tavole di legno, nodose. Il grubber si allontanò.
Jason si guardò attorno. Era la prima volta che si trovava in una fattoria, da quand’era ragazzo. Quel pianeta era diverso, ma gli aspetti simili erano evidenti. Un campo appena seminato si stendeva per la collina, davanti alla baracca. Era stato arato da uno che sapeva il fatto suo. I solchi, tutti eguali, seguivano il profilo dell’altura. Un altro edificio, più grande, si alzava vicino al primo; probabilmente una stalla o un fienile.
Sentì un rumore alle sue spalle, e si voltò di scatto. Rimase di pietra.
Con la mano, cercò la pistola, e strinse il dito su un grilletto inesistente.
Il mostro era uscito dalla giungla, e si era avvicinato senza rumore.
Aveva zampe robuste, con piedi muniti di artigli, che affondavano nel terreno. Il corpo, lungo due metri, era coperto di una pelliccia gialla e nera, tranne che il capo e le spalle, difese da piastre ossee.
Jason attese la morte.
La bocca del mostro, tagliata diritta nel muso appiattito, si spalancò, mostrando due file di denti frastagliati.
— Qui, Fido! — ordinò il grubber, ricomparendo. L’animale fece un balzo, sfiorando Jason sbalordito, e strofinò la testa contro le gambe dell’uomo. — Bravo, bravo — esclamò quello, carezzandolo.
Aveva portato dalla stalla due altri animali come quello che aveva trasportato Jason dopo la cattura, già sellati e con le briglie. Jason notò appena la pelle lucida e liscia, e le gambe snelle, mentre saliva in groppa al primo. Il grubber gli legò i piedi alle staffe. Quando si avviarono, Fido li seguì.
— Fido! — mormorò Jason, e senza motivo scoppiò a ridere. Il grubber lo fissò corrugando la fronte, sin quando tacque.
Quando entrarono nella giungla, era ormai buio, ed era impossibile distinguere qualcosa, sotto il fogliame. Ma gli animali sembravano conoscere la strada. Tutto attorno, si udivano stridori e scricchioli, ma Jason non se ne preoccupò. Forse, la tranquillità con cui il grubber affrontava il viaggio lo rassicurava, o la presenza del «cane», che sentiva, più che vedeva. Percorsero molta strada, ma senza molto disagio.
Il movimento regolare dell’animale che lo trasportava, e la fatica, vinsero Jason, che cadde in un dormiveglia intermittente, svegliandosi con un sobbalzo ogni volta che la testa gli arrivava sul petto. Finì per dormire seduto in sella. Trascorsero così alcune ore, sin quando aperse gli occhi e intravide un rettangolo luminoso. Erano arrivati.
Aveva le gambe rigide e piene di vesciche. Quando gli furono slegati i piedi, scese con uno sforzo, e per poco non cadde. Una porta si aperse, e Jason entrò. Impiegò qualche attimo per abituarsi alla luce, poi riuscì a distinguere l’uomo, sdraiato su un letto, che gli stava davanti.
— Avvicinatevi, e sedete. — La voce era forte e sonora, abituata a dare ordini. Il corpo era da invalido. Una coperta lo nascondeva sino al petto; la pelle visibile aveva un biancore malsano, chiazzato di noduli rossi, e pendeva floscia sulle ossa.
— Non è uno spettacolo piacevole — proseguì lo sconosciuto — ma io mi ci sono abituato. — Cambiò bruscamente tono. — Naxa dice che non siete di Pyrrus. È vero?