Jason lo fissò. Sui pianeti di frontiera, se ne sentivano di tutti i colori, e quella poteva essere la verità. Non aveva mai sentito parlare di Pyrrus ma ciò non significava molto. Nell’universo abitato c’erano più di trentamila pianeti noti.
— Controllerò — ammise. Se è vero, potremo combinare. Domani…
— No — rispose Kerk. — Il danaro dev’essere vinto stanotte. Ho già firmato un assegno per questi ventisette milioni; sarà protestato, se non depositiamo i fondi a copertura prima di mezzogiorno.
La faccenda diventava sempre più assurda. Jason guardò l’ora. Gli rimaneva ancora abbastanza tempo per accertarsi se Kerk mentiva. — E va bene, sarà per stanotte — disse. — Soltanto, mi occorre un biglietto, per verificare.
Kerk si alzò. — Prendeteli tutti. Non vi rivedrò sin dopo la vincita. Sarò al Casinò, naturalmente, ma non mi riconoscerete. Sarà molto meglio che nessuno sappia da dove viene il danaro, o quanto ne avete.
Poi uscì dopo aver stretto la mano di Jason come in una morsa. Jason rimase solo. Stringendo fra le dita le banconote, a ventaglio, guardò fisso l’oro e il seppia dell’incisione, sforzandosi di comprenderne la verità.
Ventisette milioni! Cosa avrebbe potuto impedirgli di scomparire con il danaro?
Pyrrus, il gigante che si chiamava come il pianeta da cui proveniva, era un idiota. Oppure sapeva quello che faceva…? Da com’era andato il loro incontro, pareva probabile.
Dopo aver infilato una minuscola pistola nel fodero sotto l’ascella, uscì, intascando i soldi.
2
Il cassiere elettronico, in Banca, appena «vide» una delle banconote gli indicò, accendendo un pannello luminoso, di recarsi dal vicepresidente Wain. Wain, quando guardò il malloppo, impallidì.
— Volete… depositarli qui? — domandò.
— Non oggi — rispose Jason. — Mi sono stati pagati a saldo di un debito.
Vorreste controllare se sono autentici, per favore, e cambiarmeli? Gradirei banconote di piccolo taglio.
Aveva le tasche interne della giacca rigonfie, quando uscì. Il danaro era buono, e gli pareva di essere una Zecca ambulante. Era la prima volta, e avere con sé una grossa somma lo metteva a disagio. Chiamando con un cenno un elicab di passaggio, si recò subito al Casinò, dove per un po’ sarebbe stato al sicuro.
Il Cassylia Casinò era il centro d’attrazione dei giocatori di tutte le costellazioni vicine. Jason vi entrava per la prima volta, benché conoscesse bene il tipo di locale. Aveva trascorso quasi tutta la vita, dall’età della ragione, in luoghi come quello, su altri mondi. Erano tutti identici. Gioco e bel mondo, in apparenza; ma, dietro le quinte, tutti i vizi possibili e immaginabili. In teoria le puntate non avevano limite; ma in pratica, quando la «casa» subiva un forte colpo, i giocatori dovevano stare in guardia. Ma Jason non era preoccupato.
La sala da pranzo era quasi deserta, e il maggiordomo si affrettò ad avvicinarsi. Jason era snello, scuro di capelli, e si muoveva con scioltezza, sicuro di sé, più come possessore di grandi ricchezze di famiglia, che come giocatore. L’apparenza era importante, e lui vi badava molto. Pranzò con comodo, mentre la grande sala si riempiva di clienti. Poi impiegò altro tempo guardando il varietà, mentre fumava un lungo sigaro. Quando infine entrò, le sale da gioco, erano già stipate e in piena attività.
Spostandosi adagio, puntò qualche migliaio di crediti. Quasi non badava al gioco; si guardava attorno con attenzione. A quanto sembrava, non c’erano irregolarità, e le macchine non erano truccate. Di solito, non era necessario la percentuale spettante alla casa bastava ad assicurare un guadagno.
Una volta vide Kerk, con la coda dell’occhio, ma non gli badò.
L’ambasciatore perdeva piccole cifre, e pareva nervoso. Probabilmente, aspettava che Jason cominciasse a fare davvero.
Jason si fermò, come sempre, al tavolino dei dadi. Era il modo più semplice per guadagnare qualcosa. Questa notte, se va bene, sbanco il casinò! Era quello il suo segreto: una specie di premonizione che gli consentiva di vincere, e, di tanto in tanto, permetteva il colpo grosso.
Venne la sua volta di tirare, e lanciando i dadi fece un otto. Le scommesse non erano molte, e lui non spinse a fondo contentandosi di evitare i sette. Fece il punto e la mano passò.
Lì seduto, puntando poco per volta, in modo automatico, mentre i dadi giravano attorno, pensò alle sue facoltà. Strano; dopo tanti anni; non sappiamo ancora molto, delle percezioni extrasensoriali. Oggi, è possibile, con l’addestramento, migliorarle; ma non di più.
Si sentiva forte era certo che il danaro che aveva in tasca gli avrebbe dato la piccola spinta aggiuntiva che talvolta lo aiutava a vincere. Con gli occhi semichiusi, raccolse i dadi; lasciò che la sua mente carezzasse i punti incisi nel cubo. Poi li lanciò; era un sette.
Le sue facoltà funzionavano. Meglio di quanto avessero mai fatto. I milioni di crediti avevano aggiunto il loro peso. Vedeva con chiarezza straordinaria, e sentiva di poter dominare i dadi. A un tratto, seppe con certezza la cifra che gli altri giocatori tenevano nel portafoglio, «vide» le carte che quelli che si trovavano alle sue spalle avevano in mano.
Adagio, con attenzione puntò.
Manovrava i dadi senza sforzo: rotolavano, fermandosi al momento giusto, come cani ben addestrati. Impiegò quasi due ore, per ammucchiare sul tavolo settecentomila crediti. Si concentrava sulla psicologia dei giocatori, e teneva d’occhio il rappresentante del casinò; a un certo punto, vide che quello, con un cenno segnalava che le vincite cominciavano a farsi forti. Aspettò che uno scagnozzo si avvicinasse con indifferenza poi puntò tutto, e lanciò i dadi con aria ispirata, perdendo. Lo scagnozzo sorrise, il croupier si rilassò… e con la coda dell’occhio Jason vide che Kerk diventava scarlatto.
Pallido, madido di sudore, percorso da un tremito leggero, Jason sbottonò la giacca, e ne tolse una busta piena di banconote. Rompendo il sigillo, ne lasciò cadere due sul tavolo.
— Si potrebbe giocare a puntata libera? — domandò. — Mi piacerebbe ricuperare un po’ di soldi.
Il croupier faticava a dominarsi, adesso. Rivolse un’occhiata al sorvegliante che mormorò un rapido sì. Avevano trovato un pollo e intendevano ripulirlo. Per tutta la sera, aveva attinto al portafoglio; adesso apriva una busta nuova, per cercare di ricuperare quello che aveva perduto.
Una busta gonfia, anche, e probabilmente con danaro non suo… Non che alla casa interessasse. Il gioco continuò senza il minimo sospetto.
Proprio quello era il desiderio di Jason. Doveva realizzare forti vincite prima che il casinò si rendesse conto che avrebbe anche potuto perdere.
Poi la situazione si sarebbe fatta delicata, e lui voleva ritardare quel momento il più possibile. Sarebbe stato difficile, da allora, vincere e le facoltà psicosensoriali potevano scomparire com’erano venute. Non sarebbe stata la prima volta.
Giocava contro il banco, ora: i due che lo imitavano erano evidentemente specchietti per allodole e una folla s’era accalcata attorno.
Dopo alcune fasi alterne, Jason imbroccò una serie buona e il mucchio dei gettoni d’oro continuò a crescere. Aveva davanti quasi un miliardo. I dadi non lo tradivano, benché fosse madido di sudore per lo sforzo. Puntando tutto in una volta, tese la mano. Ma il croupier lo precedette, togliendogli i dadi.
— La casa chiede dadi nuovi — esclamò con voce atona.
Jason si asciugò le mani, lieto di quell’attimo di sollievo. Era la terza volta che cambiavano i dadi, nel tentativo di interrompere la serie fortunata. Il funzionario del casinò ne tolse dalla borsa un paio nuovo, a caso. Lacerandone l’involucro di plastica, li lanciò verso Jason. Si fermarono sul sette, e Jason sorrise.