— Non credo — rispose Meta, mentre inseriva alcuni dati nel cervello elettronico. — Ho già visto qualche vecchia, su altri pianeti. Hanno le rughe, e i capelli grigi. Nessuno a Pyrrus è così.
— Non intendevo «vecchia» in quel senso — spiegò Jason, — ma adulta, matura. Capace di responsabilità.
— Sono tutti maturi, su Pyrrus — ribatté lei. — Almeno da quando escono dai Reparti. E succede quando hanno sei anni… Il mio primo figlio è maturo; e anche il secondo lo sarebbe, ma è morto. Perciò anch’io debbo esserlo, credo.
Parve che per lei la faccenda fosse conclusa, anche se Jason non riuscì a spiegarsi i concetti e le abitudini che quelle parole nascondevano.
Il nastro magnetico che recava le indicazioni di rotta cominciò a uscire dal calcolatore. Meta rivolse di nuovo la sua attenzione a Jason. — Sono contenta che siate a bordo, anche se mi spiace che veniate a Pyrrus. Ma avremo molto tempo, per discorrere. Ho tante domande, da farvi! Sugli altri pianeti… sul perché i loro abitanti agiscono come fanno… — Corrugò la fronte per un attimo. — Com’è il pianeta dove siete nato?
A Jason vennero in mente le solite risposte, ma tacque. Perché mentire?
Per Meta, l’unica differenza stava fra quelli di Pyrrus, e gli altri.
— Il mio pianeta…? Il più stupido, conformista e fossilizzato dell’universo. Voi non potete capire quanto sia putrido un posto che dà importanza alle caste ed è soddisfatto di sé. Nessuno, là, vorrebbe cambiare. Mio padre era agricoltore, e anch’io avrei dovuto esserlo; era impensabile, oltre che proibito, che facessi qualcos’altro. Ho imparato a leggere a quindici anni… su un libro che avevo rubato a una scuola riservata ai nobili. Quando a diciannove anni me la sono filata dal pianeta, su un’astronave da carico, avevo infranto quasi tutte le leggi! Andarmene, per me, era come scappare di prigione.
Meta scosse la testa. — Non riesco ad immaginare un posto simile. Ma sono sicura che non mi piacerebbe.
— Certo — sorrise Jason. — Quando sono stato libero, ma senza alcuna abilità particolare, in quest’epoca di tecnologi, mi sono trovato come un pesce fuori dell’acqua. Probabilmente, avrei potuto fare il soldato; ma non mi garba prendere ordini. Ero fortunato al gioco; così, poco per volta, sono diventato un professionista. La gente è identica, dappertutto; ho scoperto che potevo cavarmela.
— Eppure c’è tanta differenza, fra un posto e l’altro! — rispose Meta. — A Pyrrus, io so sempre cosa faranno i miei, e perché. Sugli altri pianeti, non riesco a capirlo. Per esempio, a me piace assaggiare i cibi locali, quando arriviamo in qualche posto; vicino agli spazioporti ci sono dei ristoranti, e io ci vado. Tutte le volte, mi trovo nei guai, con gli uomini…
— Be’… una ragazza isolata, in posti simili, deve aspettarsi una buona dose di interessamento dagli uomini.
— Oh, lo so — rispose lei; — ma quello che non capisco è perché, quando dico loro di andarsene, non mi danno ascolto. Si mettono a ridere. Ma ho scoperto una cosa che funziona, in qualunque posto. Li avverto che se non la piantono di disturbarmi rompo loro un braccio.
— E la smettono? — domandò Jason.
— No ma quando ho rotto davvero a qualcuno il braccio, se ne vanno. E gli altri mi lasciano stare.
Jason non rise. Meta era una strana mescolanza di ingenuità e di forza, diversa da tutte le ragazze che aveva conosciuto.
— Parlatemi di Pyrrus — le disse. — Perché voi e Kerk siete convinti che cascherò morto appena atterreremo? Come è il pianeta?
Il suo volto era diventato impassibile, adesso. — Non posso spiegarvelo.
Dovrete capirlo da solo. Pyrrus è diverso da tutto quello che voi, abitanti della Galassia, conoscete. Non mi credereste. Volete farmi una promessa?
— No — dichiarò Jason. — Almeno sin quando non so di cosa si tratta.
— Non scendete dall’astronave, quando arriveremo. A bordo, dovreste essere al sicuro, e fra qualche settimana ripartirò con un mercantile.
— No, non accetto. Me ne andrò da Pyrrus quando vorrò. — La convinzione di essergli superiore, dimostrata dalla ragazza, l’irritava.
6
La rivide il giorno seguente. Meta si trovava nella cupola dell’astronavigatore, e guardava il cielo nero costellato di punti luminosi.
Per la prima volta non indossava la tuta; la stoffa morbida e sericea dell’abito le aderiva al corpo.
Gli sorrise. — Le stelle sono meravigliose. Venite a guardare. — Jason le andò vicino, alzando gli occhi. Le strane figure geometriche delle costellazioni gli erano familiari, ma esercitavano ancora su di lui una specie di attrazione. Tanto più in quel momento. La presenza di Meta non poteva passare inavvertita nel silenzio della cupola. La testa di lei quasi gli poggiava sulla spalla, e i capelli nascondevano in parte il cielo; il loro profumo era dolce.
Quasi senza pensare, l’abbracciò, conscio della morbidezza ferma della sua carne sotto l’abito sottile.
— State sorridendo — disse Meta. — Anche a voi piacciono le stelle.
— Molto — rispose Jason. — Ma non è quello soltanto. Ricordavo quanto mi avete raccontato ieri… Avete intenzione di rompermi un braccio, Meta?
— No, certo — rispose la ragazza con serietà. — Mi piacete, Jason. Anche se non siete di Pyrrus, mi piacete molto. E sono stata tanto sola…
Quando Meta alzò gli occhi, lui la baciò. Gli restituì il bacio senza vergogne né falsi pudori.
— La mia cabina è qui, in principio del corridoio — mormorò.
Da quel momento, non si separarono più. Quando Meta era di servizio, Jason le portava da mangiare sul ponte di comando, e parlavano. Scoperse ben poco sul suo mondo, perché, per un tacito accordo, non ne discutevano. Le raccontava dei numerosi pianeti che aveva visitato, e dei loro popoli. La ragazza sapeva ascoltare, e il tempo trascorreva svelto. Il viaggio fu meraviglioso.
Poi finì.
A bordo dell’astronave, c’erano quattordici uomini, eppure Jason non ne aveva mai visti più di due o tre assieme. Effettuavano dei turni. Gli abitanti di Pyrrus, quando non avevano da fare per servizio, badavano ai fatti propri. Soltanto quando l’astronave entrò in orbita, si riunirono, a un ordine trasmesso per radio.
Kerk dava ordini per l’atterraggio; ma erano faccende tecniche, e Jason non si preoccupò di farvi attenzione. Era il comportamento dell’equipaggio che l’interessava. Parole e gesti si facevano più rapidi. Sembravano soldati che si preparassero al combattimento.
Per la prima volta, Jason si accorse che gli somigliavano. Non che avessero la stessa faccia; o ripetessero identici movimenti. Era il modo con cui agivano e reagivano, che li rendeva uguali. Sembravano enormi felini, pronti allo scatto, con i nervi tesi.
Cercò di parlare con Meta, dopo la riunione, ma gli parve un’estranea.
Rispose a monosillabi, senza guardarlo. In realtà, Jason non aveva niente di importante da dire; e Meta si allontanò. Lui fece un gesto per fermarla, poi si trattenne. Non sarebbero mancate altre occasioni.
L’unico che gli badasse fu Kerk… per ordinargli di stendersi in una cuccetta di accelerazione.
Meta atterrava con uno stile infinitamente peggiore che al decollo.
Spunti improvvisi d’accelerazione squassavano la astronave. Poi, una fase di caduta libera parve interminabile. Tonfi sordi riscossero lo scafo. Fu più una battaglia che un atterraggio. E quando infine l’astronave fu ferma Jason non se ne accorse neanche. I 2 G di gravità, su Pyrrus, producevano un effetto di decelerazione. Soltanto il gemito sempre più debole dei reattori lo convinse che erano arrivati. Dovette fare uno sforzo per slacciare le cinghie di sicurezza e sedersi in cuccetta.
Camminare richiedeva la stessa fatica che trasportare sulle spalle un fratello gemello; quando Jason alzò un braccio, per aprire la porta, fu come alzarne due. Si spostò con lentezza verso il boccaporto principale.