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È questo il mio buco. Ventesimo piano in uno dei condomini di Marble Hill, Broadway, 228a Strada, inizialmente un progetto edilizio comunale per appartamenti tipo medio, adesso rifugio per emarginati e detriti vari di scarico urbano. Due stanze più servizi, cucinetta, corridoio. Un tempo nessuno avrebbe potuto entrare in questo complesso se non era sposato e con bambini. Adesso alcuni individui soli ci si sono infiltrati, adducendo a motivo la loro povertà. Le cose cambiano via via che la città decade; i regolamenti vanno in fumo. La stragrande maggioranza della popolazione del complesso è portoricana con una spruzzatina di irlandesi e di italiani. In questa tana di papisti un David Selig è un’enorme anomalia. A volte pensa di dovere ai suoi vicini una quotidiana, vigorosa interpretazione dello Sh’mà Yisroel, ma non ne conosce le parole. Kol Nidre, forse. Oppure il Kaddish. Questo è il pane di afflizione che i nostri antichi padri hanno mangiato nella terra d’Egitto. Lui è fortunato di essere stato condotto fuori dall’Egitto nella Terra Promessa.

Vi piacerebbe fare un giro, con tanto di cicerone, nel covo di David Selig? Benissimo. Prego, da questa parte. Non toccate niente, per favore, e non appiccicate le vostre cicche sui mobili. Il sensibile, intelligente, amabile, nevrotico individuo che vi farà da cicerone non è altri che David Selig in persona. Non è permesso dare mance. Siate i benvenuti, miei cari, benvenuti nella mia umile residenza. Cominceremo il nostro giro con il bagno. Come vedete, questa è la vasca da bagno, quella macchia gialla sullo smalto procellanato c’era già prima che arrivasse lui, questo è il cesso, questa è la cassetta delle medicine. Selig passa qui un mucchio di tempo; è una stanza importante per chiunque capisca in profondità la sua esistenza. Per esempio, alle volte lui fa due o tre docce al giorno. Allora voi penserete: cos’è che cerca di tirarsi via? Lascia perdere questo spazzolino, tesoro. Okay, venite con me. Avete visto i poster nell’ingresso? Sono artefatti risalenti al 1960. Questo mostra il poeta Allen Ginsberg vestito da Zio Sam. Questo è una cruda volgarizzazione di un sottile paradosso topologico fatta da M.G. Escher. Questo mostra una giovane coppia nuda che fa all’amore sulla risacca del Pacifico. Otto, dieci anni fa, centinaia di migliaia di giovani decoravano le loro stanze con simili poster. Selig, benché per l’esattezza non fosse giovane neanche allora, l’ha fatto anche lui. Spesso ha seguito le manie e le mode correnti nel tentativo di aggregarsi con maggior consistenza alle strutture dell’esistere contemporaneo. Presumo che oggi questi poster siano veramente di valore. Lui li porta sempre con sé, da una casa a poco prezzo alla seguente, e così via.

Questa stanza è la camera da letto. Scura e stretta, con il soffitto basso tipico delle case popolari di una generazione fa. Tengo sempre le finestre chiuse in modo che la sopraelevata, rombando nell’aria a notte fonda, non mi svegli. È già abbastanza difficile dormire anche quando tutto è tranquillo attorno a te. Questo è il suo letto, nel quale lui dorme sonni agitati, di quando in quando, come adesso, leggendo involontariamente nelle menti di chi gli si trova vicino e incorporando i loro pensieri nelle sue fantasie. Su questo letto, forse ha fornicato con una quindicina di donne (una per volta, o anche due e occasionalmente anche tre per volta) durante i due anni e mezzo da che abita qui. Non faccia quel volto tutto sconcertato, signorina! Il sesso è un salubre sforzo umano e resta un aspetto essenziale della vita di Selig, anche adesso nella mezz’età. Può diventare anche più importante per lui negli anni a venire, perché il sesso è, dopo tutto, un modo di stabilire un contatto con gli altri esseri umani, e certi altri canali di comunicazione appaiono chiusi per lui. Chi sono queste ragazze? Alcune di loro non sono ragazze; alcune sono donne già avanti negli anni. Lui le affascina con quel suo timido modo di fare e le convince a condividere con lui un’ora di gioia. Raramente invita una seconda volta qualcuna di loro, e quando lo fa in genere rifiutano, ma comunque è tutto okay. I suoi bisogni sono soddisfatti. Come? Quindici donne in due anni e mezzo non sono poi tante per uno scapolo? Chi siete voi per giudicare? Per lui sono sufficienti. Ve lo assicuro, per lui sono sufficienti. Per favore, non sedetevi sul suo letto. È un letto vecchio, comprato di seconda mano in un seminterrato per super-affari che l’Esercito della Salvezza gestisce ad Harlem. L’ha preso per pochi dollari quando traslocò dal suo ultimo buco, una stanza ammobiliata in St. Nicholas Avenue, e aveva bisogno di alcuni mobili tutti suoi. Alcuni anni prima, verso il 1971, 72, aveva un letto con materasso di gomma pieno d’acqua, altro esempio del fatto che segue le mode passeggere, ma non riuscì mai a servirsene per lo sciacquio e il gorgoglio e, alla fine, lo diede a una giovane capace che lo sfruttò al massimo. Che cos’altro c’è in camera da letto? Molto poco di interessante, temo. Un armadio contenente banali vestiti. Un paio di ciabatte logore. Uno specchio rotto, siete superstiziosi? Uno scaffale sbilenco pieno di vecchie riviste che non rileggerà mai più, Partisan Review, Evergreen, Paris Review, New York Review of Books, Encounter, un mucchio di materiale di tendenza letteraria, più alcuni periodici di psicanalisi e di psichiatria, che Selig legge sporadicamente nella speranza di incrementare la sua conoscenza di se stesso; ma finisce sempre per buttarli via con fastidio e disappunto. Usciamo di qui. Questa stanza deve riuscirvi deprimente. Saltiamo la cucinetta — una stufa a quattro fornelli, un frigorifero di medie dimensioni, un tavolo ricoperto di formica — dove lui prepara colazioni e pranzi proprio modesti (la cena la fa abitualmente fuori) ed entriamo nel punto focale, nell’anima dell’appartamento, il soggiorno-studio a forma di L dipinto in azzurro, riempito-stivato-pigiato.

Qui potete osservare l’intera trafila dello sviluppo intellettuale di David Selig. Questa è la sua collezione di dischi, un centinaio, superconsunti, alcuni acquistati addirittura nel lontanissimo 1951 (arcaici dischi monofonici!). Quasi tutta musica classica, benché si notino due pile abusive: cinque o sei dischi jazz datati 1959 e cinque o sei dischi rock datati 1969, ambedue i blocchi acquistati durante opachi, abortiti sforzi per allargare gli orizzonti del suo gusto. D’altronde, quello che troverete qui, essenzialmente, è roba austera, spinosa, inaccessibile: Schònberg, l’ultimo Beethoven, Mahler, Berg, i quartetti di Bartok, le passacaglie di Bach. Niente che potreste agevolmente fischiettare dopo averlo sentito una volta. Non se ne intende gran che di musica, però sa quello che gli piace. Non dovete preoccuparvi troppo.