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Una calca. Ottanta, novanta; un centinaio di persone, vestite alla maniera dei fiammeggianti anni Settanta, riunite in gruppetti, che urlano l’una all’altra verità profondissime. Quelli che non hanno in mano whisky e soda sono tutti affaccendati a passarsi sigarette di marijuana, a tirare lunghe boccate conformi al rituale, a tossire, a esalare con forza. Prima che sia riuscito a togliermi il soprabito qualcuno mi ficca in bocca un’elaborata pipa con il fornello d’avorio. — Super hashish — mi spiega. — Appena arrivato da Damasco. Avanti, bello, serviti! — Ingurgito il fumo, per amore o per forza, e sento un effetto immediato. Stravedo. — Sì — urla il mio benefattore. — Ha il potere di annebbiare la mente della gente, non è così? — In questo casino la mia mente è già abbastanza annebbiata, senza bisogno della canapa, soltanto per sovraccarico. Pare che il potere funzioni, stasera, a un’intensità ragionevolmente alta, ma senza distinguere troppo i soggetti, e io, involontariamente, sono preso in un calderone concentrato di emissioni che mi si rovesciano addosso, un caos di pensieri che si mescolano. Tutta roba confusissima. Scompaiono la pipa e quello che me l’aveva passata e io, sotto l’influsso della droga, avanzo traballando in una stanza piena di fracasso, i muri tappezzati dal pavimento al soffitto di scaffali zeppi di libri. Scorgo Judith nell’attimo preciso in cui lei scorge me, e da lei viene su una linea di contatto diretto, un’emissione dapprima vivissima, ma che poi degenera: “Fratello, dolore amore, paura, ricordi condivisi, perdono, dimenticare, odio, ostilità, avversione, frumz, zzzhhh, mmm. Fratello. Amore. Odio. Zzzhhh”.

— Duv! — si mette a urlare. — Sono qui, Duvid!

Questa sera Judith è proprio sexy. Il suo lungo corpo flessuoso è avvolto in uno scialle rosso satinato, aderentissimo, che le arriva fino al collo, che mostra chiaramente il seno e le piccole protuberanze dei capezzoli e la fessura tra le natiche. Sul suo petto si accoccola una pietra di giada cerchiata in oro, occhieggiante, scolpita in modo complicato; i suoi capelli, sciolti, ricadono deliziosamente. Mi sento orgoglioso della sua bellezza. È fiancheggiata da due uomini dall’aspetto imponente. Da una parte c’è il dottor Karl F. Silvestri, autore di Studi sulla fisiologia della termoregolazione. Corrisponde al millesimo all’immagine che di lui avevo estratto dalla mente di Judith nell’appartamento di lei una o due settimane fa sebbene sia più vecchio di quanto avrei scommesso, almeno 55 anni, forse più vicino ai 60. Piuttosto alto, troppo, un metro e 90. Tento di figurarmi l’immagine del suo enorme corpo grande e grosso sopra quello sottile flessuoso di Judith, mentre le preme addosso. Non ce la faccio. Ha due guance floride, un’espressione imperturbabilmente piena di sé, occhi teneri intelligenti. Irradia verso di lei una protezione da zio, da padre. Mi rendo conto come mai Jude è attratta da lui: per lei rappresenta l’imponente figura paterna che quel povero cane bastonato di Paul Selig non è mai riuscito ad assumere nei suoi riguardi. Dall’altra parte di Judith c’è un uomo che sospetto sia il professor Claude Guermantes; getto una rapida occhiata dentro di lui e la mia congettura trova conferma. Ha una mente effervescente, argento vivo, una sorgente scintillante, abbacinante. Pensa contemporaneamente in tre o quattro lingue. La sua energia tempestosa mi riduce a pezzi al primo contatto. Ha circa quarant’anni, è alto poco meno di un metro e 90, muscoloso, atletico; porta i suoi eleganti capelli biondo-rossicci acconciati in onde turbinanti, barocche, e la sua corta barbetta a punta è tenuta in maniera impeccabile. I suoi abiti sono di stile così avanzato che mi mancano le parole per descriverli, inesperto come sono delle nuove mode: una specie di mantello di tessuto ruvido grezzo, verde e oro (di lino? di mussola?), una fascia scarlatta, calzoni in satin svasati, stivali alti appuntiti stile medioevale. Il suo aspetto dandy e l’atteggiamento affettato lo fanno sembrare un omosessuale, e invece irradia una potentissima aura di eterosessualità, e da come Judith è atteggiata, da come lo guarda appassionatamente, comincio a rendermi conto che devono essere stati, una volta, amanti. Può darsi che lo siano tuttora. Sono alquanto restio a sondare le menti su questo punto. Le mie incursioni nella privacy di Judith sono un argomento troppo scottante tra noi due.

— Vorrei farti conoscere mio fratello David — dice Judith.

Silvestri sorride tutto radioso. — Ho sentito parlare molto di voi, signor Selig.

— Veramente? — (C’è quell’anormale di mio fratello, Karl. Ci crederesti? Lui riesce veramente a leggere nel pensiero. Per lui i tuoi pensieri sono a sua disposizione come una trasmissione radiofonica). Quante cose effettivamente Judith ha svelato sul mio conto? Proverò a sondarlo per vedere. — Chiamami David. Tu sei il dottor Silvestri, giusto?

— Esattamente. Karl. Preferirei che tu mi chiamassi Karl.

— Ho saputo un mucchio di cose su di te da Jude — dico io. Non riesco a captare niente. Accidenti! Questi miserabili poteri che svaniscono; colgo solo crepitii di statica, nebbiosi frammenti di pensiero inintelligibile. La sua mente è, per me, opaca. La mia testa comincia a rintronare. — Lei mi ha mostrato due dei tuoi libri. Vorrei poter capire cose come quelle.

Una risatina vacua, compiaciuta, dall’altero Silvestri. Intanto Judith ha cominciato a presentarmi a Guermantes. Lui mormora quanto sia deliziato nel fare la mia conoscenza. Quasi mi aspetto che mi baci sulle guance, o forse sulla mano. La sua voce è morbida, tutta miele; ha un po’ di accento, però non francese. Qualcosa di strano, un misto, franco-italiano, forse, o franco-spagnolo. Finalmente ce la faccio a sondare lui, proprio ora; in un certo qual modo la sua mente, più instabile di quella di Silvestri, resta alla mia portata. Mi ci infilo dentro e do un’occhiatina, intanto scambio le solite banalità sul tempo e sulle recenti elezioni. Cristo! Casanova redivivo! Questo va a letto con tutto ciò che cammina o striscia, maschio, femmina o neutro, naturalmente ivi inclusa la mia accessibile sorellina Judith, che — stando ad un ricordo di superficie ordinatamente archiviato — lui ha smesso di scopare esattamente cinque ore fa, proprio in questa stessa stanza. Il suo sperma, adesso, sta coagulandosi dentro di lei. È oscuramente scontento perché lei non è venuta insieme a lui; considera il fatto un fiasco della sua tecnica impeccabile. Il professore sta speculando, con tanta grazia, sulla possibilità di impalarmi prima che la serata sia conclusa. Niente da fare, professore. Non ho nessuna voglia di essere aggiunto alla tua collezione privata di Selig. Lui, affabilmente, si informa sui miei titoli. — Uno solo — dico io. — Laurea in Lettere nel 1956. Avevo intenzione di fare una ricerca sulla letteratura inglese, per il dottorato, però non ci ho mai lavorato veramente. — Lui insegna Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, Baudelaire, Lautréamont, tutta quella masnada di malati, e spiritualmente si identifica con loro; le sue lezioni sono affollatissime di ragazze del Barnard in adorazione, e le loro cosce si aprono felici per lui, sebbene nella sua personalità rimbaudiana non sia affatto restio a far all’amore coi sani maschi della Columbia, eventualmente. Mentre chiacchiera con me, affettuosamente, da padrone si balocca con le scapole di Judith. Il dottor Silvestri fa finta di non accorgersene, o addirittura non gliene frega niente. — Tua sorella — bisbiglia Guermantes — è una meraviglia, è un’originale, uno splendore, un tipo, M’sieu Selig, un tipo. — Un complimento alla francese. Io frugo di nuovo nella sua mente e vengo a sapere che sta scrivendo un racconto su un giovane divorziato amareggiato, voluttuoso, un intellettuale francese, incarnazione della forza vitale, e che si aspetta di ricavarne miliardi. Mi affascina: così appariscente, così contraffatto, così ben rifinito, anche attraente a dispetto di tutte le sue vistose mancanze. Mi offre cocktail, whisky e soda, liquori, brandy, LSD, hashish, cocaina, tutto quello che desidero. Mi sento risucchiato e me la do a gambe, con un po’ di scena, sgusciando via per andarmi a versare un po’ di rum.