Scrollo le spalle. Una vacca cocciuta! Dave, mi chiama. Nessuno mi chiama Dave. Mi spoglio, mi avvio sotto la doccia, mi insapono con tutta comodità, a lungo. Poi, buttandosi sul letto in un raro interludio di relax, Dave Selig rilegge le fatiche del mattino e prova piacere per quello che ha scritto. Puoi contarci: ci proverà piacere anche Lumumba. Poi prendo il libro di Updike. Lo apro a pagina quattro e il telefono squilla ancora. Lisa: è alla stazione della 225a; adesso ha bisogno di sapere come trovare il mio appartamento. Sta diventando qualcosa di più di un gioco, adesso. Perché mi si è appiccicata così ostinatamente? Ma sì, okay. Posso stare al suo gioco. Le do le istruzioni necessarie. Dieci minuti dopo, un colpetto alla porta. È Lisa in un ruvido maglione nero, lo stesso di sabato notte, e attillati blue jeans. Un sorriso timido, stranamente fuori tono in lei. — Ciao — dice. Cerca di mettersi a suo agio. — Quando ti ho visto per la prima volta, ho avuto questa intuizione, un lampo: Questo qui ha qualcosa di speciale. Fattela con lui. Se c’è una cosa che ho imparato, è quella di fidarmi delle intuizioni. Io, Dave, seguo gli impulsi, seguo gli impulsi. — Adesso il suo maglione è partito. I suoi seni sono sodi e ben torniti, con capezzoli piccoli, quasi invisibili. Una stella di Davide occhieggia nella valle profonda che li divide. Lei gira per la casa, dà un’occhiata ai miei libri, ai miei dischi, alle mie fotografie. — Allora dimmi — dice. — Adesso che sono qui. Avevo ragione? C’è qualcosa di diverso in te?
— C’era un tempo.
— Che cosa?
— Sono fatti miei saperlo e fatti tuoi scoprirlo — ribatto. E, raccogliendo tutte le mie forze, insinuo la mia mente nella sua. È un brutale assalto frontale, un violentarla, una scopata mentale. Naturalmente lei non prova niente. Dico: — Possedevo un dono speciale, veramente. Adesso se n’è andato quasi del tutto, ma talvolta si rifà vivo, e si dà il caso che io stia usandolo su di te proprio in questo preciso istante.
— Fuori tiro — dice lei, e si toglie i jeans. Niente mutandine. Sarà grassa prima dei trenta. Le sue cosce sono piene, il ventre sporgente. I peli del pube sono stranamente densi e molto estesi, non tanto un triangolino quanto piuttosto una specie di diamante, un diamante nero che si estende, quasi oltre i lombi fino alle anche. Le natiche hanno profonde fossette. Mentre ispeziono la sua carne, saccheggio selvaggiamente la sua mente, non risparmiando nessuna zona di privacy, godendo dei miei eccessi proprio ora che il potere langue. Non ho nessun bisogno di essere educato. Non le devo nulla: è lei che mi ha forzato. Innanzitutto cerco di verificare se mentiva quando diceva di non aver mai sentito parlare di Kitty. È la verità: Kitty non è per niente sua parente. Un’omonimia senza implicazioni, tutto qui. — Sono sicura che tu sei un poeta, Dave — dice mentre ci abbracciamo e ci buttiamo sul letto sfatto. — Anche questo — un lampo di intuizione. Anche se adesso stai facendo questo lavoro da negro, la poesia è ciò per cui sei veramente portato, vero? — Faccio scorrere la mia mano sui suoi seni e sul suo ventre. Un odore acuto proviene dalla sua pelle. Scommetto che sono tre o quattro giorni che non si lava. Non importa. Misteriosamente i suoi capezzoli vengono fuori, sottili rigidi rosei noduli. Lei si dimena. Io continuo a saccheggiare la sua mente come un barbaro che saccheggi il Foro. Lei è completamente spalancata per me; vado in visibilio per questo inatteso ritorno di forza. La sua autobiografia si va costruendo da sola. Nata a Cambridge. Ha vent’anni. Il padre un professore. La madre, professoressa. Un fratello più giovane. Un’infanzia da monella. Morbillo, varicella, scarlattina. La pubertà a undici anni, persa la verginità a dodici. Abortisce a sedici. Avventure lesbiche. Un interesse appassionato per i poeti decadenti francesi. Acido, mescalina, psilocibina, cocaina, un’escursione nell’eroina. Procuratale da Guermantes, che per di più se l’era portata a letto cinque o sei volte. I ricordi di questo fatto erano vividi. La sua mente mi rivela, di Guermantes, più di quanto io desideri vedere. È lì sospeso, in esposizione, in modo veramente impressionante. Lisa me lo proietta con un’immagine dura, aggressiva, capitano della sua anima, padrone del suo destino, eccetera. Sotto, naturalmente, è tutto il contrario: lei è spaventata a morte. Non è una ragazza vuota. Mi sento un pochino colpevole per il modo casuale nel quale mi sono infiltrato nella sua testa, senza riguardi per la sua privacy, per niente. Ma ho le mie necessità. Continuo ad andare a caccia dentro di lei; nel frattempo lei se lo ficca in bocca. Mi riesce molto difficile ricordare l’ultima volta che qualcuno l’ha fatto. Mi riesce difficile ricordare il mio ultimo amplesso, è stato tutto così terribile recentemente. È bravissima a lavorare con la bocca. Mi piacerebbe ricambiarla, ma non ce la faccio a costringermi; certe volte sono schizzinoso e lei non è il tipo adatto. Oh, be’, lasciamo questa roba per i vari Guermantes del mondo. Per me io imbroglio le carte sbirciandole nel pensiero e godendomi il pompino della sua calda bocca. Mi sento virile, esuberante, sicuro di me, e, perché no, uno che spinge contemporaneamente da due parti, nella testa e in mezzo alle gambe. Senza tirarmi indietro dalla sua mente, finalmente mi ritiro indietro dalla sua bocca, mi volto, apro le sue cosce, e mi infilò in profondità nello stretto pertugio delle labbra tra le gambe. Selig lo stallone. Selig dal grosso cazzo. — Oooh — dice lei, piegando le ginocchia. —
Oooh. — E diventiamo la bestia a due schiene. Segretamente mi nutro delle sue risposte di piacere, raddoppiando le mie; ogni spinta mi procura un piacere moltiplicato e deliziosamente elevato all’ennesima potenza. Ma ecco che si verifica una cosa strana. Benché lei non stia affatto venendo — un evento che, lo so bene, manderebbe a pezzi il contatto mentale nell’attimo stesso in cui si verificasse — la trasmissione che proviene dalla sua mente sta facendosi saltuaria e indistinta, un rumore più che un segnale. Le immagini si frantumano in un ticchettio di statica. Quello che arriva è tutto a monconi e remoto; io mi affanno per conservare la presa sulla sua coscienza, però è inutile, è inutile, lei scivola via, attimo dopo attimo si ritira da me, finché non c’è più nessuna comunicazione. E in quell’istante di separazione il mio cazzo di colpo si affloscia e scivola fuori da lei. Ne rimane scossa, presa alla sprovvista. — Che cos’è che ti ha smontato? — chiede. Capisco che è impossibile spiegarglielo. Mi ritorna in mente Judith che, qualche settimana fa, mi chiedeva se non aveva mai considerato questo mio perdere i poteri mentali come una specie di metafora dell’impotenza. Certe volte sì, le avevo detto. Ed ecco qui, adesso, che, per la prima volta, la metafora si fonde con la realtà; i due insuccessi si sono integrati. Impotente. Impotente. Povero David. — Penso di essermi distratto — le dico. Bene, lei è molto abile; per una mezz’ora mi lavora per bene, con le mani, le labbra, la lingua, i capelli, i seni, e non riesce a farlo montare neanche un pochettino, anzi mi butta sempre più giù quanto più aumenta la sua tenacia. — Non capisco proprio — dice. — Stavi venendo così bene. C’è qualcosa in me che ti ha sgonfiato? — Io la rassicuro. Tu sei stata grande, piccola mia. Roba del genere ogni tanto succede, nessuno sa perché. Le dico: — Fermiamoci un po’ e forse ritornerò in vita. — Ci fermiamo. Fianco a fianco, accarezzando le sue spalle distrattamente, io rifaccio qualche tentativo, qualche sforzo di sondaggio. A livello telepatico niente, assolutamente niente. Proprio niente. Un silenzio totale. Ci siamo, è la fine, proprio qui e adesso? È così e in questo posto che io mi spengo, definitivamente? E adesso io sono come tutti voi. Condannato a comunicare con le pure parole. — Ho un’idea — dice lei. — Facciamoci una doccia insieme. Certe volte questo è eccitante. — Da parte mia nessuna obiezione; potrebbe essere l’idea giusta, e comunque, dopo, il suo odore sarà un po’ migliore. Ci avviamo verso il bagno. Torrenti di acqua fresca, frizzante.