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— Hai portato i fogli, vecchio mio?

— Sì, li ho qui. — Li tiro fuori dal mucchio. — Eschilo, Sofocle, Euripide. Sei pagine. Fanno 21 dollari, meno i cinque che già mi hai dato vengono 16 dollari.

— Piano, piano, vecchio mio. — Si mette a sedere accanto a me sui gradini. — Prima devo leggermi questa roba, d’accordo? Come faccio a sapere che hai fatto un lavoro come si deve se non lo leggo?

Lo osservo mentre legge. In un certo senso mi aspetto di vederlo muovere le labbra, incespicare sulle parole che non gli sono familiari, invece no, i suoi occhi scorrono velocissimi sulle righe. Si morde le labbra. Legge sempre più veloce, girando le pagine con impazienza. Mi guarda a lungo e c’è la morte nei suoi occhi.

— Questa è merda, vecchio mio — dice. — Voglio dire, che questa qui è proprio merda. Che razza di porcheria hai buttato giù?

— Ti garantisco che prenderai un “ottimo”. Non mi pagherai fino a quando non avrai preso il voto. Se prendi meno di “ottimo”…

— No, ascoltami. Chi ha parlato di voti? Non posso presentare questa porcheria, assolutamente. Sta attento, metà di ’sta roba è in gergo da ebrei, l’altra metà è copiata di sana pianta dal libro. È merda di merda, ecco cos’è. Il prof lo legge, mi squadra, mi dice: Lumumba, chi ti credi che sia io? Mi credi uno scemo, Lumumba? Queste cagate non le hai scritte tu, mi dice. Qui di tuo non c’è neanche una parola. — Si alza arrabbiatissimo. — Ecco, ti leggo qualcosa, vecchio mio. Ti faccio vedere che roba mi hai appioppato. — Scorrendo le pagine, lui lancia occhiate torve, sputa, scrolla la testa. — No. Perché poi, maledizione, dovrei? Lo sai che cosa ci hai messo! Tu m’hai fatto fesso, ecco come stanno le cose. Ti sei preso gioco di quel negro scimunito.

— Ho fatto di tutto per renderlo più vicino possibile a come l’avresti scritto tu…

— Merda. Hai buttato giù una schifezza. Hai fatto un bel mucchio di puzzolente merda giudea su Euripide e speravi che io mi mettessi nei pasticci tentando di farla passare come roba mia.

— Questo è falso. Io ho fatto il migliore lavoro possibile, e non pensare che non ci abbia sudato sopra un bel po’. Quando incaricherai qualcun altro perché ti scriva un compito, ritengo che tu debba essere preparato ad aspettarti un certo…

— Quanto tempo ci hai messo? Un quarto d’ora?

— Otto ore, forse dieci — dico. — Lo sai che cosa penso che stai tentando di fare, Lumumba? Stai ribaltando contro di me il razzismo. Giudeo questo e giudeo quello, se i giudei non ti piacciono, perché non sei andato a prenderti un negro per fargli fare il compito? Perché non te lo sei scritto da solo? Io ho fatto un lavoro in tutta onestà, per te. Non mi piace per niente sentirmi dire che ho cagato della puzzolente merda giudea. E ti dico che se lo presenti, prenderai di sicuro un voto più che passabile, probabilmente almeno un “buono”.

— Sarò bocciato, ecco.

— No. No. Forse non ti rendi conto di quello che ho messo insieme. Lascia che tenti di spiegartelo. Se me lo restituisci per un minuto in modo che possa leggere un paio di cosette… forse ti riuscirà più chiaro, se io… — Alzandomi in piedi, allungo una mano per prendere i fogli, ma lui fa la faccia scura e li solleva sopra la mia testa, ben alti. Mi ci vorrebbe una scala per arrivarci. Non sono abituato a saltare. — Buono, maledizione, non metterti a giocare con me! Lascia che li prenda! — Io scatto e lui dà un colpetto di polso e i sei fogli volano via presi dal vento verso est, lungo il viale del College. Con la morte nell’anima, li osservo mentre volano via. Chiudo i pugni, una straordinaria vampata di rabbia esplode in me. Ho voglia di prendere a cazzotti quella sua faccia irridente. — Non avresti dovuto fare questo — dico — assolutamente non avresti dovuto buttarli via.

— Restituiscimi i miei cinque dollari, vecchio mio.

— Buono. Io ho fatto il lavoro che mi avevi chiesto di fare, e…

— Hai detto tu: niente paga se i fogli non andavano bene. Okay, i fogli erano merda. Niente paga. Restituiscimi i miei cinque dollari.

— Tu non stai giocando pulito, Lumumba. Stai tentando di farmi uscire dai gangheri.

— Chi è che sta cercando di far uscire dai gangheri qualcuno? In ogni caso chi si è messo in tasca quell’anticipo? Io? Tu. Adesso cosa faccio io per il compito finale? Finisco per prendermi un’insufficienza e questo per colpa tua. Metti il caso che mi dichiarino non eleggibile nella squadra a causa di tutto questo. Eh? Eh? Allora cosa faccio? Senti, bello, mi fai venir voglia di vomitare. Sgancia quei cinque dollari.

Vuole sul serio essere rimborsato? Non so dirlo. L’idea di rifondergli la paga mi disgusta, e non soltanto perché ci smeno dei soldi. Vorrei poterlo leggere, ma non riesco a cavare niente da lui a quel livello; adesso sono completamente bloccato. Blufferò. Dico: — Che storia è questa? E tutta quella fatica sprecata? Io il lavoro l’ho fatto. Non capisco proprio quali dannati irragionevoli motivi tu abbia per rifiutarlo. Almeno mi tengo i cinque dollari. Almeno quelli.

— Restituiscimi i soldi.

— Va in malora.

Comincio ad andarmene. Lui mi acchiappa — il suo braccio, completamente steso verso di me, dev’essere lungo quanto una delle mie gambe — e mi tira verso di lui. Comincia a scrollarmi. Sto battendo i denti. Lui ha un sorriso più largo che mai, però i suoi occhi sono demoniaci. Agito i miei pugni verso di lui, però, con le braccia che ha, non arrivo neanche a toccarlo. Mi metto a urlare. Si riunisce una folla. Di colpo ci sono tre o quattro altri uomini con i giaccotti da universitari che ci circondano, tutti neri, tutti giganteschi, anche se non grossi come lui. I suoi compagni di squadra. Ridono, schiamazzano, saltellano. Per loro io sono soltanto un burattino. — Ehi! Ti disturba? — chiede uno di loro. — Ti serve aiuto, Yahya? — strilla un altro. — Cosa t’ha fatto quel fottuto merdone vociante? — urla un terzo. Formano un anello e Lumumba mi spinge verso l’uomo alla sua sinistra, che mi afferra, e mi sballottano qui è là nel cerchio. Giro vorticosamente; incespico; barcollo; loro non mi lasciano mai cadere. Intorno e intorno e intorno. Una gomitata mi esplode sulle labbra. Sento sapore di sangue. Qualcuno mi schiaffeggia violentemente, e la mia testa rimbalza all’indietro. Dita tese mi si conficcano nelle costole. Sento che mi stanno facendo del male, parecchio; che insomma questi giganti stanno pestandomi ben bene. Una voce che mi sembra vagamente la mia offre a Lumumba il rimborso, ma nessuno ci fa caso. Loro continuano a farmi girare dall’uno all’altro. Adesso niente schiaffi, niente colpi secchi, ma pugni. Dov’è la polizia del campus? Aiuto! Aiuto! Porci poliziotti aiutatemi! Invece non viene nessuno. Non ce la faccio più a respirare. Quanto mi piacerebbe lasciarmi cadere sulle ginocchia, raggomitolarmi per terra. Loro stanno urlandomi qualcosa, epiteti razziali, parole che afferro solo vagamente, un gergo da fratelli di sangue che dev’essere stato appena inventato; io non capisco che cosa stanno urlandomi, però posso sentire l’odio in ogni sillaba. Aiuto! Aiuto! Il mondo ruota vorticosamente, selvaggiamente. Adesso lo so che cosa proverebbe una palla da canestro, se potesse provare qualcosa. Il pestaggio continua, l’annullamento di un movimento senza fine. Per favore, qualcuno, chiunque, mi aiuti, li fermi. Provo un forte dolore allo stomaco: un mucchio di metallo bianco-caldo dietro il mio sterno. Non riesco a vedere. Riesco soltanto a sentire. Dove sono i miei piedi? Finalmente sto crollando. Guardo come arrivano veloci verso di me i gradini. Il freddo bacio della pietra mi ammacca la guancia. Può darsi che abbia già perso conoscenza: come faccio a parlare? Un motivo di conforto, uno solo, c’è, almeno. Più in basso di così non posso scendere.