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— Perché no? — disse Nyquist.

Ero ansioso di crederci. Avevo davanti la visione di te risvegliata alla completa capacità di ricezione, capace di captare le trasmissioni con la stessa facilità e la stessa incisività con cui le captavamo Nyquist e io. Come sarebbe stato intenso il nostro amore, allora! Saremmo stati completamente spalancati l’uno all’altro, spogli di tutte quelle piccole simulazioni e difese che impediscono anche agli amanti più intimi una piena realizzazione dell’unione delle anime. Avevo già sperimentato una forma parziale di questo tipo di intimità con Tom Nyquist, ma è ovvio che non lo amavo, e in fondo non mi piaceva neanche, per cui in realtà fu un disastro, una brutale ironia, che le nostre menti potessero essere in un contatto così intimo. Tu invece? Se fossi riuscito anche solo a svegliarti, Kitty! E perché no? Chiesi a Nyquist se riteneva che fosse possibile. Prova e lo scoprirai, disse lui. Fa’ degli esperimenti. Tenendole le mani, standovene seduti insieme al buio, mettici un po’ di energia e tenta di agganciarti a lei. Val la pena di tentare, no? Sì, dissi io, è ovvio che vale la pena di tentare.

Sembravi latente in tanti altri sensi, Kitty: un essere umano potenziale piuttosto che uno reale. Ti circondava un’aria di adolescenza. Sembravi più giovane di quanto eri realmente; se non avessi saputo che eri laureata avrei scommesso che avevi diciotto o diciannove anni. Non avevi letto granché al di fuori dei tuoi campi di interesse — matematica, elaboratori elettronici, tecnologia — e, dal momento che quelli non erano i miei campi, ero convinto che tu non avessi letto proprio niente di niente. Non avevi viaggiato; tutto il tuo mondo era limitato dall’Atlantico e dal Mississippi e il grande viaggio della tua vita era stata una vacanza estiva nell’Illinois. Non avevi neppure avuto molte esperienze sessuali: tre uomini (non è così?) in 22 anni, e soltanto con uno era stato un fatto serio. Così ti vidi come materiale greggio in attesa della mano dello scultore. Sarei stato il tuo Pigmalione.

Nel settembre 1963 traslocasti da me. Comunque stavi passando tanto di quel tempo accanto a me! Fosti d’accordo che non aveva senso continuare ad andare avanti e indietro. Mi sentii proprio sposato: calze umide appese sopra l’asta della tenda della doccia, uno spazzolino da denti extra sulla mensola, lunghi capelli scuri nel lavandino. Il tuo calore accanto a me nel letto ogni notte. Il mio ventre contro il tuo dolce caldo pube, yang e yin. Ti diedi alcuni libri da leggere: poesie, racconti, saggi. Con quanta diligenza li divorasti! Leggesti Trilling sul bus andando a lavorare e Conrad nelle tranquille ore dopo cena e Yeats una domenica mattina mentre ero fuori alla ricerca del Times. Sembrava però che niente penetrasse profondamente in te; non eri proprio portata per la letteratura; penso che avresti fatto difficoltà a distinguere Lord Jim da Lucky Jim, Malcolm Lowry da Malcolm Cowley, James Joyce da Joyce Kilmer. La tua mente acuta, così pronta a padroneggiare COBOL e FORTRAN, non era capace di decifrare il linguaggio della poesia, e tu avresti alzato lo sguardo da La Terra Desolata, tutta confusa, per fare qualche domanda da scolaretta delle superiori che mi avrebbe lasciato irritato per ore. Un caso disperato, pensavo certe volte. Tuttavia un giorno che la borsa era chiusa tu mi conducesti giù al centro computer dove lavoravi e ascoltai le tue spiegazioni sull’attrezzatura e sulle tue mansioni come se mi stessi parlando in sanscrito. Mondi differenti, differenti tipi di mente. Eppure continuavo a sperare di riuscire a formare un ponte tra noi.

In momenti strategicamente calcolati parlai in modo confuso del mio interesse per i fenomeni extrasensoriali.

Lo esposi come se fosse un mio hobby, un freddo studio spassionato.

Ero affascinato, dissi, dalla possibilità di arrivare a una vera comunicazione mente a mente tra esseri umani. Fui attento a non sembrare un fanatico, per non svelare il mio caso; mantenni la mia disperazione fuori vista. Dal momento che veramente non riuscivo a leggere in te, mi riusciva più facile mirare a quell’obiettività scientifica più di quanto mi sarebbe riuscito con chiunque altro. E dovevo mirarci. La mia strategia non mi permetteva confessioni di nessun genere a nessuno. Io non dovevo tenerti, Kitty, non volevo che tu avessi motivi per considerarmi un’anormalità, oppure un lunatico. Soltanto un hobby, dunque. Un hobby.

Tu non riuscivi a credere all’ESP. Se non può essere misurata con un voltmetro o registrata su un elettroencefalografo, dicesti tu, non esiste. Sii più larga di vedute, protestai. Ci sono fenomeni come i poteri telepatici. So che ci sono (attento, Duv!). Non potevo parlare di tracciati EEG; non avevo mai avuto a che fare nella mia vita con un EEG, non avevo nessuna idea se il mio potere sarebbe stato registrato. E mi ero severamente vietato di conquistare il tuo scetticismo chiamando qualche estraneo e facendo una specie di gioco di società leggendogli nella mente. Però potevo offrire altri argomenti. Da’ un’occhiata ai risultati di Rhine, da’ un’occhiata a tutta quella serie di corretti lettori delle carte Zener. Come puoi spiegare tutto questo, se non come ESP? E poi l’evidenza della telecinesi, del teletrasporto, della chiaroveggenza…

Tu restasti scettica, smontasti freddamente la maggioranza dei dati da me citati. Il tuo modo di ragionare era sottile e rigido; non c’è niente di indistinto nella tua mente quando si trova nel territorio che le è familiare, il metodo scientifico. Rhine, dicesti, mise insieme alla meglio i suoi risultati operando i test su gruppi eterogenei, selezionando poi per test successivi soltanto i soggetti che rivelavano insolite successioni di colpi di fortuna, e trascurando gli altri. E pubblicò soltanto i dati che gli parvero confermare la sua tesi. È un’anomalia statistica, non extrasensoriale, quella che fa saltar fuori tutte quelle risposte esatte sulle carte Zener, insistevi. Inoltre, chi fa l’esperimento è già vittima del pregiudizio di credere nell’ESP, e questo fatto certamente lo porta a ogni genere di inconsci errori di procedura, sottili interventi di pregiudiziali preterintenzionali che inevitabilmente fanno deviare il risultato. Con molta cautela io ti invitai a tentare qualche esperimento su di me, permettendoti di scegliere tu stessa le procedure da seguire. Tu dicesti okay, soprattutto, ritengo, perché era qualcosa che potevamo fare insieme, e — si era all’inizio di ottobre — perché eravamo già, coscienti e imbarazzati, alla ricerca di aree di intimità, e la tua educazione letteraria era diventata un motivo di tensione per ambedue.

Fummo d’accordo — con quanta sottigliezza la feci passare per una tua idea personale! — di concentrarci per trasmettere immagini o idee dall’uno all’altra. E proprio in partenza un esito crudelmente ingannevole. Raccogliemmo alcuni mucchietti di disegni e tentammo di collegarci mentalmente. Ho ancora, qui in archivio, i nostri appunti su quegli esperimenti:

Neanche un colpo azzeccato da parte tua. Però quattro su dieci potevano essere considerate associazioni molto strette: le calendule con le rose, l’Empire State e il Pentagono, l’elefante e il trattore, la locomotiva e l’aeroplano (fiori, edifici, oggetti molto pesanti, mezzi di trasporto). Sufficienti per darci false speranze di una vera e propria trasmissione. E quel che seguì:

Anche per me nessun colpo azzeccato. Però anche qui tre associazioni molto strette, tre su dieci: spiaggia tropicale e paesaggio assolato, il ponte George Washington e il Monumento a Washington, la sopraelevata nell’ora di punta e l’alveare; il denominatore comune era rispettivamente: il sole, George Washington, un’intensa attività frenetica. Alla fine ci illudemmo considerandole strette associazioni piuttosto che coincidenze. Riconosco che io per tutto il tempo annaspai al buio, indovinando più che leggendo, eppure anche così avevo un poco di fiducia nella qualità delle nostre risposte. Ciononostante quelle collusioni, probabilmente casuali, di immagini, stuzzicarono la nostra curiosità: qui c’è qualcosa, forse, tu cominciasti a dire. E andammo avanti.