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Variammo le condizioni per la trasmissione del pensiero. Tentammo di farlo nell’oscurità più assoluta, una stanza appartata. Tentammo con la luce accesa, tenendoci per mano. Tentammo mentre facevamo all’amore: entrai in te e ti tenni tra le mie braccia e pensai con forza a te, e tu pensasti con forza a me. Tentammo sotto l’effetto dell’alcool. Tentammo a digiuno. Tentammo sotto condizione di lunga privazione del sonno, sforzandoci di stare alzati nella speranza puramente aleatoria che le menti barcollanti per la fatica potessero permettere agli impulsi mentali di scivolare attraverso le barriere che ci separavano. Avremmo tentato anche con droghe e acido, però non pensavamo molto all’acido nel ’63. Cercammo in una decina di altri modi di aprire i condotti telepatici. Forse tu ricordi ancora i particolari; l’imbarazzo li ha cancellati via dalla mia mente. So che lottammo con il nostro futile progetto notte dopo notte per più di un mese, mentre il tuo interesse aumentava, si faceva evanescente e sfumava di nuovo, trasportandoti attraverso tutta una serie di fasi, dallo scetticismo al freddo interesse distaccato a un indubbio fascino fino all’entusiasmo, poi alla consapevolezza di un fiasco inevitabile, a un senso dell’impossibilità della nostra meta, per cedere infine alla stanchezza, alla noia, alla rabbia. Io non mi accorsi di nulla: pensavo che tu fossi concentrata sul lavoro come lo ero io. Invece quello aveva smesso di essere sia un esperimento sia un gioco; ormai per te era soltanto una ricerca ossessionante, e parecchie volte in novembre chiedesti se potevamo smettere. Tutto questo leggere nel pensiero, dicevi, ti lasciava con spaventosi mal di testa. Io, però, non potevo lasciar perdere, Kitty. Ribattei alle tue obiezioni e insistetti perché andassimo avanti. Ero intestardito, ero duro, ti intimidii spietatamente obbligandoti a cooperare, ti tiranneggiai in nome dell’amore, mirando sempre a quella Kitty telepatica che avrei prodotto. Ogni dieci giorni, forse, qualche ingannevole barlume di apparente contatto riportava a galla il mio idiota ottimismo. Noi dovevamo sfondare; noi dovevamo arrivare a toccare l’uno la mente dell’altra. Come avrei potuto arrestarmi adesso, quando eravamo così intimi? E invece non eravamo mai stati intimi.

All’inizio di novembre Nyquist diede uno dei suoi occasionali party con cena, facendosi mandare i cibi da un ristorante di Chinatown che prediligeva. I suoi party erano sempre brillanti; rifiutare l’invito sarebbe stato assurdo. Perciò alla fine fui costretto a esporti a lui. Per più di tre mesi ti avevo tenuta lontana da lui, più o meno deliberatamente, sfuggendo il momento del confronto, una vigliaccheria di cui non mi ero pienamente reso conto. Arrivammo in ritardo: tu eri lenta a prepararti. Il party era già cominciato, quindici o sedici persone; molti erano celebrità, anche se non per te, perché cosa ne sapevi tu di poeti, compositori, romanzieri? Ti presentai a Nyquist. Lui sorrise e sussurrò un complimento sdolcinato e ti diede un bacio blando, impersonale. Apparivi timida, quasi timorosa nei riguardi di lui, della sua schiettezza e dolcezza. Dopo un brevissimo scambio di parole se la filò per andare ad aprire la porta. Un po’ più tardi, mentre stavamo prendendo il nostro primo drink, io gli piantai in testa un pensiero.

— Be’? Che ne pensi di lei?

Lui, però, era troppo occupato con gli altri ospiti per entrare in contatto con me e non colsi nessuna risposta alla mia domanda. Dovevo cercare la soluzione per conto mio nella sua stessa testa. Mi inserii (mi lanciò un’occhiataccia attraverso la stanza, ben comprendendo quello che stavo facendo) e andai alla caccia di informazioni. Strati di porcherie da stalliere coprivano i suoi livelli superficiali; simultaneamente stava offrendo da bere, sostenendo una conversazione, facendo segno che era tempo che gli strudel fossero serviti, e intimamente stava scorrendo la lista degli ospiti per vedere chi doveva ancora arrivare. Tagliai corto superando questa roba e in un attimo trovai il suo angolino dei pensieri su Kitty. Di colpo venni a sapere quello che volevo e temevo. Lui era capace di leggerti. Sì. Per lui eri trasparente come chiunque altro. Soltanto per me eri opaca, per motivi che nessuno conosceva. Nyquist ti aveva penetrata istantaneamente, ti aveva valutata, si era formato il suo giudizio su di te, ed era lì pronto perché io potessi esaminarlo: ti vedeva goffa, immatura, ingenua sì, però attraente e piena di charme (ecco come ti ha vista. Non sto affatto tentando, per mie ragioni personali, di renderlo più critico nei tuoi riguardi di quanto sia stato in realtà. Tu eri molto giovane, non eri per niente sofisticata, e lui lo vide). La scoperta mi lasciò di ghiaccio. La gelosia si incrostò in me. Il lavoro massacrante che avevo fatto per tante settimane per arrivare a te, tutto da buttare via; mentre lui poteva così facilmente penetrare nel tuo intimo, Kitty! Immediatamente diventai sospettoso. Nyquist e i suoi scherzi maliziosi: era anche questo uno dei tanti? Era davvero capace di leggerti? Come potevo essere sicuro che non fingesse, a mio uso e consumo? Lui colse questo pensiero.

“Non ti fidi di me? È naturale che io legga nella sua mente.”

“Può darsi di sì, come può darsi di no.”

“Vuoi che te lo provi?”

“Come?”

“Sta a guardare.”

Senza interrompere neanche per un attimo il suo ruolo di padrone di casa, entrò nella tua mente, mentre la mia restava attaccata strettamente alla sua. E così, tramite lui, io ebbi la mia prima e unica visione del tuo intimo, Kitty, riflesso attraverso Tom Nyquist. Oh! Non era la visione di cui avevo bisogno, proprio per niente. Vidi me stesso attraverso i tuoi occhi tramite la sua mente. Fisicamente io apparivo, per quel che importa, meglio di quanto immaginavo di essere, le spalle più larghe di quello che erano di fatto, il volto più scarno, le fattezze più regolari. Nessun dubbio che tu eri sensibile al mio corpo. Ma le associazioni emotive! Mi vedevi come un padre severo, un maestro di scuola arcigno, un tiranno brontolone. Leggi questo, leggi quello, metti alla prova la tua mente, ragazzina! Studia sodo per essere degna di me! Oh! E poi quel nucleo fiammeggiante di risentimento per i nostri esperimenti ESP: più che inutili e dannosi, per te, una noia mastodontica, un viaggio nella pazzia, una fatica enorme, lacerante. Notte dopo notte essere tormentata da quel monomaniaco, io. Addirittura le nostre scopate infestate dalla folle ricerca del contatto mente-a-mente. Quanto eri disgustata di me, Kitty! Come mi consideravi mostruosamente pazzo!

Un attimo di rivelazione di questo tipo fu più che sufficiente. Punto sul vivo, mi tirai indietro, allontanandomi rapidamente da Nyquist. Mi ricordo: stavi guardandomi allarmata, quasi sapessi a uno stadio subliminale che potenti energie mentali erano sprizzate attraverso la stanza, mettendo a nudo l’intimità della tua anima. Sbattesti le ciglia e le tue guance si arrossarono e buttasti giù un enorme sorso del tuo drink. Nyquist mi lanciò un sorriso sardonico. Non riuscii a incrociare i suoi occhi. Ma anche allora opposi resistenza a quanto lui mi aveva rivelato. Non avevo già visto strani effetti di rifrazione in precedenza, in collegamenti di questo tipo? Non era mio dovere dubitare dell’esattezza del suo quadro dell’immagine che ti eri fatta di me? Non poteva darsi che lui l’avesse oscurata e colorita, introducendovi maliziose distorsioni e ingigantendo alcuni particolari? Davvero ti avevo tormentato tanto, Kitty, o si trattava di semplice noia scherzosamente esagerata in vivido malessere? Non potevo accettare di averti annoiato a morte. Noi tutti tendiamo a interpretare gli avvenimenti secondo come più ci piace vederli. Però mi ripromisi di andarci piano, con te, in futuro.