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Con molta attenzione si mette a sedere. Impressioni tumultuose lo aggrediscono. La stanza è affollata e rumorosa, con i letti schiacciati l’uno contro l’altro: I letti hanno le tendine ma nessuna tendina è tirata. La maggioranza dei suoi compagni di stanza e di degenza sono negri, e parecchi di loro sono in condizioni gravi, circondati da un mucchio di attrezzature. Mutilati a coltellate? Sfracellati contro i parabrezza? Amici e parenti, ammucchiandosi attorno a ogni letto, gesticolano e discutono e rimproverano; il tono normale delle voci è un guaito vociante. Infermieri impassibili attraversano la stanza, mostrando quell’atteggiamento distaccato verso i pazienti che i custodi dei musei mostrano verso le mummie in esposizione. Nessuno presta la minima attenzione a Selig tranne Selig, che ritorna a esaminare se stesso. Le punte delle sue dita esplorano le guance. Senza uno specchio non sa dire quanto hanno pestato la sua faccia, comunque ci sono parecchi punti che cedono sotto le dita. La clavicola sinistra è dolorante per un colpo di karate agile, guizzante. Il ginocchio destro irradia dolori lancinanti e fitte acute, come se se lo fosse storto cadendo. Insomma, prova meno dolore di quanto immaginava, forse gli hanno somministrato qualche sedativo.

La sua mente è obnubilata. Sta ricevendo alcune emissioni mentali da quelli che lo circondano nella corsia, ma sono sprazzi, niente di distinto; coglie le aure ma non verbalizzazioni intelligibili. Nel tentativo di tenersi su, chiede tre volte alle infermiere che passano di dirgli che ora è, perché il suo orologio da polso è partito; loro filano via, ignorandolo. Finalmente una negra massiccia, sorridente, con un abito rosa lo squadra e dice: — Un quarto alle quattro, tesoro. — Del mattino? Del pomeriggio? Probabilmente del pomeriggio, decide lui. Dalla parte opposta della corsia, in diagonale, due infermiere hanno cominciato a montare quello che forse è un sistema di nutrizione tramite ipodermoclisi, con un tubo di plastica che striscia dentro le narici di un enorme negro svenuto tutto avvolto da fasciature. Lo stomaco di Selig non dà nessun segnale di appetito. Quell’odore di sostanze chimiche nell’atmosfera di ospedale gli provoca nausea; fa fatica anche a deglutire. Gli daranno da mangiare la sera? Per quanto tempo dovrà restare lì? Chi paga? Dovrebbe chiedere di informare Judith? Sono gravi le lesioni?

Un interno entra nella corsia: un piccoletto scuro di carnagione, di poche parole, ben piantato, a lui sembra un pakistano, che si muove con precisione deliziosa. Un fazzoletto sgualcito e macchiato che sporge dal taschino sul petto, però, sciupa l’ordinato, elegante effetto della sua attillata candida uniforme. Sorprendentemente viene dritto verso Selig. — I raggi X non rivelano nessuna frattura — dice senza preamboli, con voce decisa ma piatta. — Perciò i vostri unici danni sono abrasioni minori, contusioni, tagli, e una leggerissima commozione cerebrale. Siete pronto per essere dimesso. Su, alzatevi.

— Un attimo — disse Selig senza forza. — Sono appena arrivato. Non so neppure che cosa è successo. Chi mi ha portato qui? Per quanto tempo sono rimasto senza conoscenza? Che cosa…

— Io non ne so niente. La vostra degenza è finita e l’ospedale ha bisogno del vostro letto. Per favore, in piedi, su, subito. Ho molto da fare.

— Una commozione cerebrale? Se ho una commozione cerebrale, almeno dovrei passare la notte qui. Oppure l’ho già passata qui la notte? Che giorno è oggi?

— Siete entrato oggi verso mezzogiorno — dice l’interno, facendosi sempre più di cattivo umore. — Siete stato medicato nella sala di emergenza e vi sono stati fatti esami scrupolosissimi, dopo quel pestaggio sui gradini della Low Library. — Ancora una volta l’ordine di alzarsi, questa volta dato senza parole, uno sguardo imperioso con l’indice puntato. Selig sonda la mente dell’interno e la trova accessibile, però apparentemente non contiene nient’altro che impazienza e irritazione. Selig scende pesantemente dal letto. Il suo corpo pare tenuto insieme con il fil di ferro. Le ossa sfregano le une contro le altre, raschiando. Nel petto ha ancora l’impressione delle lacerazioni prodotte dalle punte delle costole rotte; i raggi X possono sbagliarsi? Sta per chiederlo, ma è troppo tardi. L’interno, continuando il suo giro, è passato a un altro letto.

Gli portano i suoi abiti. Lui tira la tendina e si veste. Sì, ci sono macchie di sangue sulla camicia, come aveva temuto; e anche sui calzoni. Che pasticcio. Controlla i suoi effetti personali: c’è tutto, portafogli, orologio da polso, il pettine tascabile. E adesso? Vado fuori e basta? Niente firme? Selig si muove incerto verso la porta. Entra nel corridoio senza che nessuno lo veda. Poi l’interno si materializza quasi fosse un ectoplasma e indica un’altra stanza al di là del corridoio, dicendo: — Aspettate lì fin quando non è arrivato il poliziotto di guardia. — Il poliziotto di guardia? Che c’entra il poliziotto di guardia?

Come temeva, ci sono alcuni fogli da firmare prima di essere fuori dalla stretta dell’ospedale. Ha appena finito con le pratiche burocratiche quando entra nella stanza un uomo paffuto, scuro in volto, sulla sessantina, con indosso l’uniforme del corpo di sicurezza del campus, che sbuffa un po’, e dice: — Siete voi Selig?

Lui ammette di esserlo.

— Il preside vuole vedervi. Siete capace di camminare con le vostre gambe o volete che vi procuri una sedia a rotelle?

— Camminerò da solo — dice Selig.

Escono dall’ospedale insieme, su per Amsterdam Avenue fino al cancello del campus sulla 115a Strada, e dentro Van Am Quad. Il poliziotto gli resta attaccato alle costole, senza dire niente. Poco dopo Selig si ritrova in attesa fuori dell’ufficio del Preside del Columbia College. Il poliziotto aspetta con lui, le braccia placidamente incrociate, come avvolto in un bozzolo di noia. Selig comincia a sentirsi quasi in arresto. E perché? Un’idea balorda. Che cos’ha lui da temere dal preside? Sonda la stupida mente del poliziotto ma non riesce a scovarci nient’altro che banchi di nebbia ondeggianti, a ciuffi. Vorrebbe sapere chi è adesso il preside. Ricorda molto bene i presidi della sua epoca: Lawrence Chamberlain, cravattino a farfalla e sorriso caloroso, era preside del College, e Dean McKnight, Nicholas McD. McKnight, un entusiasta dell’associazione studentesca (Sigma Chi?), con un modo di fare impettito, chiaramente ottocentesco, era preside degli studenti. Ma tutto questo era vent’anni fa. Chamberlain e McKnight debbono aver avuto parecchi successori da allora, anche se lui non ne sa niente; non è mai stato uno che legge il notiziario del College.

Dall’interno, una voce dice: — Il preside Cushing vi riceverà subito.

— Entrate — dice il poliziotto.

Cushing? Un bel nome per un preside. Chi è? Selig avanza con fatica, zoppicando, reso goffo dalle botte, infastidito dal ginocchio dolorante. Di fronte a lui, dietro una cattedra luccicante, ordinatissima, sta seduto un uomo dalle spalle larghe, l’espressione melliflua, l’aspetto giovanile, il tipico giovane executive, vestito con un abito scuro classico. Il primo pensiero di Selig è quello dei cambiamenti provocati dal passare del tempo: lui aveva sempre visto i presidi come elevati simboli dell’autorità, necessariamente attempati oppure, almeno, di mezza età, invece eccoti qui il Preside del College che sembra un uomo della sua stessa età. Si rende allora conto che questo preside non è soltanto un anonimo coetaneo, ma è proprio un suo compagno di classe, Ted Cushing, 1956, un personaggio di una certa fama allora, capo classe e star del football e studente bravissimo che Selig aveva conosciuto, anche se superficialmente. Coglie sempre di sorpresa Selig l’essere costretto a pensare che lui non è più tanto giovane, che vive in un’epoca nella quale la sua generazione ha il controllo dei meccanismi del potere. — Ted? — dice senza pensarci su. — Tu adesso sei preside, Ted? Cristo, non ci sarei mai arrivato. Quando…