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La sua presa sulla mente di Cushing si irrobustisce e si approfondisce. Finisce per non turbarlo più il fatto che Cushing lo disprezza tanto, Selig si sposta in una forma astratta nella quale non identifica più se stesso col miserabile pidocchio visto da Cushing. Che cosa ne sa, Cushing? Riesce forse a penetrare nella mente di un altro? Riesce a provare l’estasi del contatto reale con un altro essere umano? Eppure lì c’è estasi. Simile a un dio lui se ne va passeggiando nella mente di Cushing, affondando al di là delle difese esterne, al di là dei graziosi motivi di orgoglio e degli snobismi, al di là della mediocrità compiaciuta di sé autogratificantesi, nella zona dei valori assoluti, nel regno dell’autentico io. Contatto! Estasi! Quello stronzo di Cushing è soltanto guscio, niente polpa. Qui c’è un Cushing che neppure Cushing conosce: lo conosce Selig.

Selig non era stato così felice da anni. Una luce, dorata e serena, inonda la sua anima. Un irresistibile senso di gioia si impossessa di lui. Corre attraverso nebbiosi boschetti all’alba, sentendo le delicate sferzate delle umide verdi fronde di felci contro le sue gambe. La luce del sole occhieggia dalla volta dell’alto fogliame, e goccioline di rugiada brillano di un freddo fuoco interiore. Gli uccelli stanno svegliandosi. Il loro canto è tenero e dolce, un lontano cinguettio, sonnecchiante e morbido. Corre attraverso la foresta, e non è solo, perché una mano è stretta alla sua mano; e sa che non è mai stato solo e che non sarà mai solo. Il terreno della foresta è molle e spugnoso sotto i suoi piedi nudi. Corre. Corre. Un coro invisibile lancia una nota armoniosa e la sostiene, la sostiene, la sostiene, gonfiandola in un perfetto crescendo, finché, proprio quando lui sbuca fuori dal boschetto e si lancia in un prato abbacinato dal sole, quel crescendo riempie tutto il cosmo, risuonando con magica pienezza. Si getta con la faccia contro la terra, abbracciando la terra, dimenandosi contro il fragrante tappeto erboso, appiattendo le mani sulla curvatura del pianeta, ed è ben conscio del palpitare interiore del mondo. Questa è estasi! Questo è contatto! Altre menti lo circondano. In qualunque direzione egli si muova, sente la loro presenza, che lo accompagna, lo sostiene, si allunga verso di lui. Vieni, dicono, unisciti a noi, unisciti a noi, sii uno con noi, butta via quei cenciosi brandelli di te, lascia perdere tutto quello che ti stacca da noi. Sì, risponde Selig. Sì. Io affermo l’estasi di vita. Io affermo la gioia del contatto. Mi regalo a voi. Loro lo toccano. Lui tocca loro. Era per questo, lui lo sa, che ho ricevuto il mio dono, la sua benedizione, il suo potere. Per questo attimo di affermazione e di pienezza. Unisciti a noi. Unisciti a noi. Sì! Gli uccelli! Il coro invisibile! La rugiada! Il prato! Il sole! Lui ride; si alza e si abbandona in una danza estatica; getta all’indietro la sua testa per cantare, lui che in tutta la sua vita non ha mai osato cantare, e le note gli vengono spontanee, sono pastose e piene, pure, nettissime al centro dell’armonia. Sì! Oh, l’unirsi, il toccarsi, l’essere congiunti, l’essere unità! Lui non è più David Selig. È parte di loro, e loro sono parte di lui, e in quel gioioso congiungersi sperimenta la perdita di sé, scaglia via tutto quanto c’è di stanco di ammalato di dolorante in lui, scaglia via le paure e le incertezze, scaglia via tutto quanto lo ha separato da se stesso per anni. Va oltre. È completamente aperto e l’immenso segnale dell’universo fluisce liberamente dentro di lui. Riceve. Trasmette. Assorbe. Irradia. Sì. Sì. Sì. Sì.

Sa che questa estasi durerà eternamente.

Invece, nel momento della percezione, sente che sta già scivolando via. La felice nota del coro si affievolisce. Il sole si lascia cadere dietro l’orizzonte. Il mare lontano che sta ritirandosi, risucchia la spiaggia. Lui si dibatte per afferrarsi strettamente alla gioia, ma più si dibatte più perde terreno. Aggrappati stretto alla corrente! Come? Ritarda il cadere della notte! Come? Come? Il canto degli uccelli adesso è flebile. L’aria si è fatta frizzante. Ogni cosa fugge lontana. Resta in piedi, solo, nell’oscurità crescente, pieno del ricordo dell’estasi, ricatturandola per un momento, facendola rivivere, perché già se n’è andata, e si deve richiamarla indietro con un atto di volontà. Andata, sì. All’improvviso, tutto è tranquillo. Lui sente un suono, l’ultimo, un accordo di strumenti, in lontananza, forse un violoncello, un pizzicato, uno stupendo suono di melanconia. Dlang. La corda del lamento. Dling. La corda che si rompe. Dlong. La lira scordata. Dlang. Dling. Dlong. E poi più niente. Il silenzio lo avvolge. Un silenzio finale, ecco cos’è. Un silenzio che rimbomba nelle caverne del suo cranio, il silenzio che segue il rompersi delle corde del violoncello, il silenzio che arriva con la morte della musica. Non sente niente, non può. Non prova niente. Non può. È solo. È solo.

Lui è solo.

— Così tranquillo — mormora. Così intimo. È-così-intimo-qui.

— Selig? — chiede una voce profonda. — Qual è il problema, Selig?

— Sto benissimo — dice Selig. Tenta di alzarsi in piedi, ma non c’è niente che abbia solidità. Sta cadendo attraverso la cattedra di Cushing, attraverso il pavimento dell’ufficio, sta cadendo attraverso il pianeta stesso, cercando e non trovando una piattaforma solida. — Così tranquillo. Il silenzio, Ted, il silenzio! — Braccia robuste lo afferrano. Ha coscienza di diverse figure che si agitano intorno. Qualcuno sta telefonando per un dottore: Selig scuote la testa, protesta che non c’è niente che va male, assolutamente niente, eccetto il silenzio nella sua testa, eccetto il silenzio, il silenzio.

Eccetto il silenzio.

26

L’inverno è alle porte. Cielo e strada formano una continua, inesorabile striscia di grigio. Ci sarà presto la neve. Per qualche motivo i vicini se ne sono andati per tre o quattro giorni, e rigonfi sacchi di immondizia sono ammucchiati davanti a ogni edificio, eppure non c’è odore di sporcizia nell’aria. Del resto gli odori non potrebbero prosperare in queste temperature: il freddo trascina via ogni puzza, ogni segno di realtà organica. Soltanto il concreto trionfa qui. Il silenzio regna. Negri macilenti e gatti grigi, immobili, statue di se stessi, occhieggiano dai viali. Il traffico è leggero. Camminando svelto per le strade dalla stazione del metrò fino all’abitazione di Judith, distolgo i miei occhi dai volti della poca gente che incontro. Mi sento intimidito e impacciato, vergognoso tra loro, come un veterano della guerra che sia appena stato dimesso dal centro riabilitazione e sia imbarazzato per le sue mutilazioni. Naturalmente non sono capace di dire che cosa la gente sta pensando; adesso le loro menti sono chiuse per me e mi passano accanto portando scudi di impenetrabile ghiaccio; ma, ironia della sorte, ho l’impressione, l’illusione che tutti loro abbiano accesso a me. Possono guardare dritto dentro il mio essere e vedermi così come mi sono ridotto. Ecco David Selig, staranno pensando. Quanto è stato imprudente! Che cattivo custode del suo potere! Lo ha rovinato e ha lasciato che gli sfuggisse, quell’imbecille. Mi sento in colpa perché provoco in loro questa delusione. Eppure non provo ancora quel senso di colpa che penso potrei provare. A qualche livello, l’ultimo livello, non mando tutti al diavolo. È questo quello che sono, dico a me stesso. È questo che sarò d’ora in poi. Se non vi piace, allora merda! Tentate di accettarmi. Se non ce la fate, ignoratemi.