Выбрать главу

Secondo round: Jimmy venne avanti deciso a ridurmi a pezzettini. Oscillando selvaggiamente, freneticamente, mirando ancora alla mia testa. Io tenni la testa dove lui non poteva arrivare e gli piroettai di fianco e lo colpii di nuovo nella pancia, molto duro, e quando si piegò in due lo colpii al naso e lui piombò giù, urlando. L’arbitro che dirigeva il match contò velocissimo fino a dieci e alzò in alto il mio braccio. — Ehi, Joe Louis! — strillava mio padre. — Ehi, Willie Pep! — L’arbitro suggerì di andare da Jimmy per aiutarlo a stringergli la mano. Appena lui fu in piedi colsi con assoluta nitidezza la sua decisione di piantarmi una testata sui denti, e io finsi di non farci caso, fino a quando lui caricò; allora freddamente mi spostai di fianco e gli picchiai violentemente i pugni sulla schiena piegata. Questo lo fece imbestialire. — David imbroglia! — gemette. — David imbroglia!

Tutti loro! Quanto mi odiavano per la mia acutezza, o almeno per ciò che interpretavano come acutezza! La mia sleale abilità di intuire sempre quello che stava per succedere. Bene, adesso non ci saranno più problemi. Dovrebbero amarmi, tutti. Per amarmi, mi hanno ridotto a un mollusco.

È Judith che apre la porta. Indossa un vecchio maglione grigio e calzoni sportivi azzurri con un buco su un ginocchio. Lei mi tende le braccia e io la abbraccio calorosamente, stretta stretta contro il mio corpo, forse per mezzo minuto. Sento della musica che proviene dall’interno: l’Idillio di Sigfrido, penso. Dolce, amorosa, gradevole musica.

— Sta già nevicando? — chiede.

— Non ancora. Grigiore e gelo, tutto qui.

— Ti preparo un drink. Vai nel soggiorno.

Resto in piedi di fronte alla finestra. Volteggiano pochi fiocchi di neve. Mio nipote arriva e mi studia a distanza, un dieci metri. Con mia sorpresa sorride. Dice con calore: — Ciao, zio David!

Deve averlo indottrinato Judith. Sii gentile con zio David, deve avergli raccomandato. Lui non si sente bene, ultimamente gli sono capitati un mucchio di guai. Così il ragazzo se ne sta lì, tutto gentile con zio David. Non credo che mi abbia mai sorriso prima d’ora. Fuori dalla culla, per me non ha mai avuto né bisbigli né guaiti. Ciao, zio David! Che bello, piccolino.

— Salve, Pauly. Come ti va?

— Molto bene — dice lui. Con questo le sue buone maniere sono esaurite; non sta a far domande sullo stato della mia salute, ma tira fuori uno dei suoi giocattoli e si immerge nei suoi meandri. Eppure i suoi occhi larghi, oscuri, brillanti, continuano a esaminarmi ogni pochi minuti, e non sembra che ci sia nessuna ostilità nel suo sguardo.

Wagner è finito. Rovisto in mezzo alla raccolta di dischi, ne scelgo uno, e lo metto sul piatto. Schönberg, Verklärte Nacht. Musica di un’angoscia tempestosa seguita dalla calma e dalla rassegnazione. Di nuovo il tema dell’accettazione. Bellissimo. Bellissimo. Le note echeggianti mi avvolgono. Pastose, lussuraggianti. Appare Judith; mi offre un bicchiere di rum. Ha qualcosa di dolce per sé, sherry o vermouth. Sembra un po’ giù, però molto cordiale, molto aperta.

— Alla salute — dice.

— Alla salute.

— Hai messo una bella musica. Un mucchio di gente non ci crederebbe che Schönberg può essere sensuale e tenero. Naturalmente, è lo Schönberg dei primi tempi.

— Sì — dico io. — I succhi romantici tendono a inaridire via via che invecchi, eh? Che cosa hai fatto in questi ultimi tempi, Jude?

— Non molto. Un mucchio delle solite vecchie cose.

— Come sta Karl?

— Non lo vedo più.

— Ah.

— Non te l’avevo detto?

— No — dico. — È la prima volta che lo sento.

— Non sono abituata a pensare che è necessario dirti le cose, Duv.

— Sarebbe meglio che ti ci abituassi. Tu e Karl…

— Stava diventando troppo insistente riguardo al matrimonio. Gli ho detto che era troppo presto, che non lo conoscevo abbastanza, che avevo paura di ingabbiare di nuovo la mia vita in una struttura che forse è sbagliata per me. Lui è restato offeso. Ha cominciato a farmi la predica su questo ritirarsi per complicare e rinviare le cose, sulla mania auto-distruttiva, un mucchio di sciocchezze del genere. L’ho guardato dritto negli occhi nel bel mezzo del suo sermone e l’ho visto come una specie di figura paterna; lo sai: grosso, pomposo, rigido, non un amante ma un mentore, un professore; non ne ho proprio bisogno per niente. Allora ho cominciato a pensare a quello che sarebbe stato tra dieci o dodici anni. Lui sui sessanta, e io ancora giovane. E mi sono resa conto che per noi non c’era futuro insieme. Gliel’ho detto il più gentilmente possibile. Non ha telefonato per dieci giorni o giù di lì. Penso che non telefonerà più.

— Mi spiace.

— Non è il caso, Duv. Ho fatto la cosa più intelligente. Ne sono sicura. Karl andava benissimo per me, però non avrebbe potuto essere per sempre. Il mio periodo-Karl. Un periodo sano. L’essenziale è non permettere che un periodo continui dopo che tu hai capito che è finito.

— Sì — dico io. — Certamente.

— Vuoi ancora un po’ di rum?

— Fra un po’.

— Che cosa mi dici di te? — chiede lei. — Parlami di te. Come te la cavi, adesso che… adesso che…

— Adesso che è finito il mio periodo di superuomo?

— Sì — dice lei. — È proprio finito, eh?

— Proprio. Tutto finito. Non c’è dubbio.

— E allora, Duv? Come ti senti da quando è successo?

Giustizia. Si sentono un mucchio di cose sulla giustizia, la giustizia di Dio. Lui ricerca i virtuosi. Lui tratta come immondizia gli empi. Giustizia? Dov’è la giustizia? Dov’è Dio, a questo punto? È proprio morto, oppure è soltanto assente, o distratto? Guarda la Sua giustizia. Manda un’inondazione in Pakistan. Zack, un milione di persone morte, gli adulteri e i vergini, gli uni e gli altri. Giustizia? Può darsi. Può anche darsi che le vittime, supposte innocenti, non fossero dopotutto così innocenti. Zack, la suora tutta dedita al lebbrosario si becca la lebbra, le sue labbra cadono a brandelli durante la notte. Giustizia. Zack, la cattedrale che la congregazione è andata costruendo negli ultimi 200 anni è ridotta a un cumulo di macerie da un terremoto il giorno prima di Pasqua. Zack: Zack. Dio ci ride in faccia. Questo è giustizia? Dove? In che senso? Voglio dire: prendi il mio caso. Non è che stia tentando di strapparvi un po’ di pietà, adesso; no, no. Voglio essere soltanto oggettivo. Ascoltate, non ho chiesto io di essere un superuomo. Sono stato forgiato così all’atto del mio concepimento. Un incomprensibile capriccio di Dio. Un capriccio che mi definì, mi diede forma, mi malformò, mi rese uno spostato, e io non avevo fatto niente per averlo, non avevo chiesto niente, assolutamente non lo avevo desiderato, a meno che voi pensiate alla mia ereditarietà genetica come una qualche specie di karma maligno, merda! È stata una contrazione involontaria puramente casuale. Dio disse: Che questo bimbo sia un superuomo, ed ecco! il giovane Selig fu un superuomo, in un’accezione ristretta del termine. Almeno per un certo tempo. Dio mi ha fatto per tutto quello che sarebbe successo: l’isolamento, la sofferenza, la solitudine, anche l’autocompassione. Giustizia? Ma dove? Il Signore dà, chissà perché, dannazione, e il Signore toglie. La qual cosa, appunto, Lui, adesso, ha fatto. Il potere se n’è andato. Sono assolutamente piatto, gente, piatto come voi e voi e voi. Non fraintendetemi: io accetto il mio destino, vi sono completamente rassegnato; non vi chiedo di sentirvi spiaciuti per me. Semplicemente ho bisogno di cavarci fuori un qualche significato, piccolo. Adesso che il potere se n’è andato, io chi sono? Come faccio a definire me stesso, adesso? Ho perduto la mia specialità, il mio potere, la mia vergogna, il motivo del mio isolamento. Tutto quello che mi è rimasto adesso è il ricordo di essere stato diverso. Le sue cicatrici. Che cosa si presume che faccia io adesso? Come faccio ad agganciarmi all’umanità adesso che la differenza se n’è andata e che io sono ancora qui? Quello è morto, io sopravvivo. Che strano scherzo mi ha fatto, Dio. Non è che io stia protestando, capitemi. Sto soltanto chiedendo fatti, con un tono di voce tranquillo, ragionevole. Sto cercando di capire qualcosa della giustizia divina. Penso che il vecchio arpista di Goethe avesse di te, Dio, la visione esatta. Tu ci butti nella vita, lasci che il pover’uomo cada nella colpa, e poi lo confini nella miseria. Perché ogni colpa è vendicata sulla Terra. Questo è un reclamo ragionevole. Tu, Dio, hai il potere definitivo, però rifiuti di avere la responsabilità definitiva. Questo è giusto? Penso che anch’io ho un ragionevole motivo di reclamo. Se c’è giustizia, perché una fetta così grossa della vita sembra ingiusta? Se veramente, Dio, sei al nostro fianco, perché ci dai un’esistenza di lacrime? Dov’è la giustizia per i bambini nati senza occhi? Per i bambini nati senza testa? Per il bambino nato con un potere che gli uomini non contavano di avere? Solo per chiedere, Dio. Accetto la tua decisione, credimi, mi inchino alla tua volontà, perché potrei anche… che scelta posso avere, dopo tutto?… Ma ho ancora il diritto di chiedere. Giusto?