— Che ne dici di quello che ha ucciso la sua matrigna mentre era sotto l’azione dell’acido? E della ragazza che si è buttata dalla finestra?
Toni si strinse nelle spalle. — Erano instabili — disse altezzosamente. — Forse era proprio l’assassinio o il suicidio la loro vera inclinazione, e l’acido ha solo fornito la spinta di cui avevano bisogno. Questo, però, non vuol dire che sarebbe così per te, o per me. Può anche darsi che le dosi fossero eccessive, o la roba fosse tagliata con qualche altra droga. Chi lo sa? Quelli sono un caso su un milione. Io ho amici che hanno viaggiato cinquanta, sessanta volte, e non hanno mai avuto nessun disturbo. — Era irritata con me. C’era un tono condiscendente, da paternale, nella sua voce. Pareva che la sua stima nei miei riguardi stesse diminuendo per quelle mie esitazioni da vecchia zitella; eravamo al limite di una vera e propria spaccatura. — Dov’è il problema, David? Hai paura di un viaggio?
— Penso che non sia saggio viaggiare insieme, tutto qui. Quando non siamo sicuri dove questa roba ci porta.
— Viaggiare insieme è la cosa più bella che due persone possano fare — disse lei.
— Ma è una cosa rischiosa. Non lo conosciamo bene. Ascoltami: si può prendere più acido di quello che serve, non è vero?
— Ritengo di sì.
— Okay, allora. Facciamolo con ordine, un passo alla volta. Non c’è fretta. Tu viaggi domani e io starò a guardare. Io viaggerò domenica e starai a guardare tu. Se ad ambedue piacerà quello che l’acido combina alle nostre teste, la prossima volta faremo il viaggio insieme. Va bene, Toni? Okay?
Non andava bene. Vidi che lei stava per cominciare a parlare, per imbastire qualche argomentazione, qualche obiezione; però la vidi anche trattenersi, fare marcia indietro, riflettere sulla sua posizione, e decidere di non farne niente. Benché non fossi entrato nella sua mente neanche per un secondo, l’espressione del suo volto rendeva tutta la sequenza dei suoi pensieri, con un’evidenza completa. — Tutto bene — lei disse adagio. — Non vale la pena di insistere.
Sabato mattina lei saltò la colazione — le era stato detto di fare il viaggio a stomaco vuoto — e, dopo che io ebbi mangiato, rimanemmo seduti per un po’ in cucina con uno dei quadratini di carta sporca che stava lì, tutto innocente, sul tavolo tra noi due. Fingemmo che non ci fosse. Toni sembrava un po’ tirata; non sapevo se fosse seccata per la mia insistenza di fare il viaggio separati oppure se, proprio all’ultimo momento, fosse turbata dall’idea del viaggio. Non parlammo molto. Lei riempì un portacenere con un grande lugubre mucchio di sigarette fumate a metà. Ogni tanto ridacchiava nervosamente. Ogni tanto io le toccavo una mano e sorridevo incoraggiante. Durante queste scene patetiche alcuni degli inquilini con cui noi condividevamo la cucina entrarono e uscirono. Prima Eloise, la melliflua torbida puttana. Poi la signorina Theotokis, l’infermiera dalla faccia dura, che lavorava al St. Luke. Il signor Wong, il misterioso piccolo grassoccio cinese che girava sempre in mutande. Aitken, l’erudito omosessuale che veniva da Toledo, con il suo cadaverico compagno di stanza tossicomane, Donaldson. Un paio di loro fecero un cenno con la testa nella nostra direzione, però nessuno disse niente, neppure «Buon giorno». In quel posto si usava comportarsi come se i propri vicini fossero invisibili. Le belle tradizioni della vecchia New York! Verso le dieci e mezzo Toni disse: — Dammi un succo di arancia, vuoi? — Ne versai un bicchiere prendendolo, nel frigorifero, da un contenitore che portava un’etichetta con il mio nome. Ammiccando verso di me e facendomi un ampio sorriso, una smargiassata menzognera, lei appallottolò la cartina macchiata e se la spinse in bocca, inghiottendola senza masticarla e mandando giù il succo d’arancia in un sorso solo.
— Quanto tempo ci vuole perché faccia effetto? — chiesi.
— Circa un’ora e mezzo — rispose.
In realtà andò meglio: cinquanta minuti. Eravamo ritornati nella nostra stanzetta, avevamo chiuso a chiave la porta; deboli ineguali note di Bach provenivano dal giradischi portatile. Tentai di mettermi a leggere, e anche Toni; le pagine non le voltavamo troppo alla svelta. Di colpo lei alzò lo sguardo e disse: — Comincio a sentirmi un po’ strana.
— Strana come?
— Ho le vertigini. Un leggero senso di nausea. Sento un formicolio sul collo, qui dietro.
— Posso darti qualcosa? Un bicchier d’acqua? Un succo?
— Niente, grazie. Sto benissimo. Veramente. — Un sorriso, timido ma genuino. Sembrava un po’ tesa, però per niente impaurita. Impaziente di cominciare il viaggio. Misi giù il libro e la osservai, vigile, sentendomi protettivo, desiderando quasi di avere qualche occasione per essere utile. Non volevo assolutamente che lei facesse un brutto viaggio, soltanto desideravo esserle utile.
Lei mi tenne continuamente informato sul progredire dell’acido attraverso il suo sistema nervoso. Io presi nota finché lei osservò che lo scricchiolio della matita sul foglio la distraeva. Gli effetti visivi erano incominciati. Le pareti le parvero leggermente concave, e le crepe nell’intonaco avevano assunto uno straordinario disegno di grande complessità. Il colore di ogni minima cosa diveniva naturalmente brillante. I raggi di luce solare che entravano attraverso la finestra sconnessa erano frammenti prismatici dello spettro vomitati sul pavimento. La musica — avevo messo sull’automatico un mucchio dei suoi dischi preferiti — aveva acquistato una curiosa nuova intensità; lei cominciava ad avere difficoltà a seguire le linee melodiche, e le pareva che il piatto si arrestasse e ripartisse, però il suono stesso, in quanto suono, aveva un’indescrivibile qualità di densità e di tangibilità che l’affascinava. C’era un fischio nelle sue orecchie, come di aria che passasse veloce sopra le sue guance. Parlò di un senso di estraneità che la pervadeva. — Sono su qualche altro pianeta — disse due volte. Appariva arrossata, eccitata, felice. Ricordando i racconti terrificanti di cui avevo sentito parlare, di discese agli inferi indotte dall’acido, resoconti strazianti di paurose vicende amabilmente riportati per la delizia di milioni di persone dai diligenti anonimi giornalisti di Time e Life, stavo quasi per piangere rilevando, di fronte all’evidenza, che la mia Toni sarebbe passata attraverso il suo viaggio indenne. Avevo temuto il peggio. Invece lei stava facendolo proprio benissimo. Aveva gli occhi chiusi, la sua faccia era serena ed esultante, il suo respiro profondo e rilassato. Era perduta nei trascendentali regni del mistero, la mia Toni. Adesso mi stava parlando semplicemente, rompendo i suoi silenzi soltanto ogni qualche minuto per mormorarmi qualcosa di indistinto e di contorto. Era passata una mezz’ora da quando lei aveva cominciato a dire di provare strane sensazioni. Via via che si immergeva più profondamente nel suo viaggio, anche il mio amore per lei si faceva sempre più profondo. La sua abilità di tener testa all’acido era la prova della radicale solidità della sua personalità, e questo mi piaceva immensamente. Io ammiro le donne capaci. Già avevo programmato il mio viaggio per il giorno seguente, dopo aver selezionato l’accompagnamento musicale, dopo aver tentato di immaginare il tipo di interessanti distorsioni della realtà che avrei sperimentato, non vedendo l’ora di poter, poi, analizzare le annotazioni insieme a Toni. Ero molto pentito della vigliaccheria che mi aveva privato del piacere di viaggiare con Toni quello stesso giorno.
Però, cos’è questo, adesso? Che cosa sta succedendo alla mia testa? Perché questo improvviso senso di soffocamento? Questo peso sul mio petto? Questa sensazione di aridità alla gola? Le pareti stanno piegandosi; l’aria sa di chiuso e pesante; il mio braccio destro è di colpo un piede più lungo del sinistro. Questi sono effetti che Toni ha comunicato e descritto pochi attimi fa. Perché adesso li provo io? Sto tremando. Sulle mie cosce i muscoli scattano per conto loro. È quello che chiamano alto contatto? Soltanto perché sono così vicino a Toni mentre lei è in viaggio, lei mi trasmette delle particelle di LSD e io inavvertitamente assorbo un qualche contagio presente nell’atmosfera?