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La compagnia di me stesso diventa fastidiosa, quando arrivo all’autocommiserazione. Per distrarmi provo a sondare le menti dei passanti, e imparare quel che posso imparare. Gioco al mio vecchio gioco, al mio unico gioco. Selig il voyeur, il vampiro-delle-anime, che strappa l’intimità di estranei innocenti per rallegrare il suo cuore di ghiaccio. Ma no: oggi la mia testa è avvolta nella bambagia. Mi arrivano soltanto mormoni sommessi, indistinti, senza senso. Niente parole ben precise, niente sprazzi di identità, niente visioni dell’essenza dell’anima. Questo è un brutto giorno. Tutto quello che afferro costituisce un insieme inintelligibile; ogni frammento di informazione è identico a tutti gli altri. È il trionfo dell’entropia. Mi viene in mente la signora Moore di Forster, tutta tesa nelle echeggianti caverne di Marabar, in attesa di una rivelazione. E invece riesce a sentire l’identico monotono disturbo, l’identico suono senza senso che spazza via tutto: Bum. La sintesi e l’essenza degli sforzi calorosi dell’intera umanità: Bum. Le menti che mi lampeggiavano dentro mentre passavano sul viale del College adesso mi trasmettevano soltanto: Bum. Forse è tutto quello che merito. Amore, paura, fede, spilorceria, ingordigia, autocompiacimento, ogni forma di monologo interiore, tutto mi arriva sotto la stessa identica forma. Bum. Devo mettermi sotto per modificare questa situazione. Non è troppo tardi per cominciare a far guerra all’entropia. Con gradualità, sudando, lottando, cercando a tentoni dei risultati consistenti, spalanco la mia apertura mentale, lavoro le mie percezioni per spingerle a funzionare. Sì. Sì. Ritornate a vivere! Risuscita, spia miserabile! Dammi quel che mi spetta! I miei poteri stanno agitandosi in me. L’oscurità interiore sta un po’ dissipandosi; frammenti erranti di pensieri isolati ma coerenti trovano il modo di entrare in me. "Nevrotico ma non ancora completamente psicotico. Andare a trovare il capo del dipartimento per dirgli di dargli una spinta. I biglietti per l’opera, però devo andarci. Andare a donne è divertente, andare a donne è molto importante, ma ci sono cose più divertenti e più importanti. Come starsene su un trampolino molto alto prima di spiccare il tuffo." Questo dissonante caotico cicaleccio non mi dice niente, se non che il potere non è ancora morto, e questo mi conforta molto. Mi raffiguro il potere come una specie di verme attorcigliato attorno al cervello, un povero verme stanco, raggrinzito e tutto accartocciato, la sua pelle una volta bella hicida adesso piena di ulcere con chiazze logore e squamose. Questa è un’immagine relativamente recente, però anche nei tempi più felici ho sempre pensato al potere come qualcosa di staccato da me, un intruso. Un inquilino. Lui e io, io e lui. Ero solito discutere di cose del genere con Nyquist. (Lui è già entrato a far parte di questi sfoghi? Forse no. Si tratta di una persona che ho conosciuto una volta, un certo Tom Nyquist, uno dei miei amici di una volta. Che si portava nel cranio un intruso simile a questo mio). A Nyquist non piaceva il mio punto di vista. — È da schizoide, impostare una dualità simile. Il tuo potere sei tu stesso. Tu sei il tuo potere. Perché cerchi di estraniarti dal tuo stesso cervello? — È probabile che Nyquist avesse ragione, ma è troppo tardi. La dualità, lui e io, sarà così finché non ci separerà la morte.

Ecco il mio cliente, il massiccio mediano, Paul F. Bruno. Ha la faccia tutta gonfia e rossa, e non sorride per niente, come se le bravate di sabato gli fossero costate qualche dente. Io sfilo la fascia elastica ed estraggo I romanzi di Kafka e gli porgo il dattiloscritto. — Sei pagine — dico. Mi aveva anticipato dieci dollari. — Mi devi ancora 11 dollari. Vuoi prima leggerlo?

— È buono?

— Non ti dispiacerà.

— Ti credo sulla parola. — Mi fa una smorfia dolorosa, a bocca chiusa. Tirando fuori il suo portafoglio ben gonfio, mi mette in mano alcuni biglietti di banca. Io mi intrufolo svelto nella sua mente se non altro perché, maledizione, adesso questo mio potere è di nuovo in funzione, una rapida scorsa psichica, e capto i livelli più superficiali: i denti persi durante la partita di pallone, un delizioso lavoretto consolatorio in una casa d’appuntamenti sabato notte, progetti piuttosto vaghi da mandare in porto prima della partita di sabato prossimo, eccetera. Per quel che riguarda la trattativa in atto scorgo senso di colpa, imbarazzo, anche un po’ di risentimento nei miei riguardi, per averlo aiutato. Ma bene: la gratitudine del gentile. Mi metto in tasca i soldi. Lui mi favorisce un secco cenno di assenso e ripone I romanzi di Kafka sotto l’enorme avambraccio. Precipitosamente, con vergogna, si affretta a scendere i gradini e si allontana in direzione dell’Hamilton Hall. Osservo il suo groppone in fuga. Un’improvvisa raffica di vento astioso, proveniente dall’Hudson, da est, mi dà una coltellata e mi penetra nelle ossa.

Bruno si è fermato accanto alla meridiana, dove uno studente negro alto due metri lo ha intercettato; un giocatore di pallacanestro, ovvio. Il negro indossa una giacchetta azzurra da universitario, scarpette di tela verde, calzoni sportivi gialli aderenti a tubo. Le sue gambe da sole devono essere alte un metro e mezzo. Lui e Bruno parlottano per un momento. Bruno fa segno nella mia direzione. Il negro annuisce. Sto per acquistare un nuovo cliente, probabilmente. Bruno scompare e il negro trotta e saltella lungo il viale, e sale i gradini. È proprio nero, quasi violaceo di pelle, tuttavia la sua fisionomia ha un’acutezza caucasica, zigomi fieri, un naso aquilino altero, labbra sottili, gelide. É straordinariamente ben fatto, una specie di statua che cammina, una specie di idolo. Forse i suoi geni non sono completamente negroidi: un etiope, magari, di una qualche tribù dei giuncheti del Nilo? Porta la sua nerissima massa di capelli ricciuti in un’enorme aggressiva aureola all’africana larga 30 centimetri o anche più, meticolosamente ordinata. Non sarei rimasto sorpreso di vedere guance rigate da cicatrici, o un osso ficcato nelle narici. Come si avvicina, la mia mente, aperta solo di uno spiraglio, coglie le emanazioni periferiche generalizzate della sua personalità. Tutto scontato, anzi stereotipo: mi aspettavo che fosse permaloso, vanitoso, sulla difensiva, ostile, e quello che arriva a me è un miscuglio di feroce orgoglio di razza, uno sconvolgente autocompiacimento fisico, un’esplosiva sfiducia nei riguardi degli altri, soprattutto bianchi. Benissimo. Schemi arcinoti.

La sua lunga ombra piomba su di me, improvvisa, quando, per un attimo, il sole squarcia le nubi. Lui ondeggia instabile sulle punte. — Sei tu Selig? — chiede. Con la testa faccio segno di sì. — Yahya Lumumba — dice lui.

— Prego?

— Yahya Lumumba. - I suoi occhi, bianco lucido contro un rosso lucido, scintillano di rabbia. Dall’impazienza del suo tono infine capisco che mi sta dicendo come si chiama, o almeno, il nome che preferisce usare. Il suo tono denota anche che lui presume che sia un nome famoso nel campus. Be’, ma cosa posso saperne io delle star di pallacanestro del College? Potrebbe fare anche 50 canestri per partita, e io non sentirei ugualmente parlare di lui. Dice: — Ho sentito che fai le esercitazioni finali.